Sabato 24 luglio alcuni romani si sono dati appuntamento sulla scalinata di Trinità de Monti per sedersi, leggere, parlare. Tra loro c’erano Christian Raimo e Federica Borlizzi. Entrambi sono stati multati. «Lo scenario che avevamo davanti era al limite del paradossale» ha raccontato Federica. «Appena si sedevano sulla scalinata, decine di turisti venivano ripresi da sei zelanti vigili urbani che presidiano, notte e giorno, quel luogo solo per evitare che qualcuno possa poggiarsi sui gradini. Un compito, tra l’altro, davvero svilente». Obiettivo dell’azione, spiega Federica, è segnalare l’assurdità e la sproporzione delle misure repressive che oggi regolano l’uso dello spazio pubblico. «Presenteremo un ricorso per contestare la legittimità costituzionale della multa. La gestione dello spazio urbano deve tornare al centro del dibattito».
L’invenzione della «mala-movida»
Limitazione degli accessi, divieto di stazionamento, divieto di consumo di alcolici, cibo e bevande, se non ai tavoli dei locali. Sono alcune delle misure che hanno accolto il ritorno della socialità nello spazio pubblico, con la fine del coprifuoco, a giugno 2021. Una socialità in alcuni casi violenta, fatta di urla furiose, lanci di bottiglie, cori e risse, che ha provocato raffiche di provvedimenti, come scrive la Questura di Roma. Si tratta di provvedimenti di Daspo urbano, divieti di accesso alle aree urbane. La «mala-movida» sembra essere diventato il principale problema del paese, che stranamente colpisce quei luoghi resi inadatti a qualsiasi altra funzione, a partire dall’abitare. I sindaci cadono dalle nuvole, non sanno che fare, emanano ordinanze. Le misure anti-assembramento, introdotte per il contenimento dei contagi, diventano provvedimenti anti-movida mirati a reprimere i comportamenti più che i contagi, e si sovrappongono ai divieti emanati prima della pandemia in alcune zone della città.
A Firenze una misura vieta lo stazionamento e il consumo in sei aree del centro storico dalle 21 alle 6. Viene poi ritoccato l’orario, ma il divieto resta. A Santo Spirito è sempre proibito stazionare, così come consumare cibi e bevande sul sagrato della chiesa e sulla scalinata sottostante. Alla vista dei primi turisti, il direttore degli Uffizi propone una tassa sui panini perché «è troppo costoso pulire olio e salse nel loggiato». A Roma iniziano i saldi, in centro vanno male. Come ogni anno i commercianti incolpano la Ztl (zona a traffico limitato) senza ammettere che, al di là del mezzo per farlo, andare in centro non è più piacevole. Non c’è un bar che non sia turistico, si trovano sempre meno panchine e le sedute monumentali, come quella di travertino di Palazzo Farnese, sono presidiate militarmente. Roma è un trionfo di transenne: a ottobre 2020 la sindaca Virginia Raggi dà ordine di recintare ogni gradino in centro – la statua di Giordano Bruno a Campo dè Fiori, le fontane a Trastevere e a Monti, le sedute della zona pedonale al Pigneto. La scalinata di Trinità de Monti era già off limits a romani e turisti. Non più, come ha scritto Italo Insolera «un posto dove a Roma si può star fermi, si può star seduti, si può guardare e guardarsi». Sedersi sulla scalinata di Trinità dè Monti è infatti vietato dal nuovo regolamento di polizia urbana di Roma Capitale (art.4, lettera a), che prevede multe salate (fino a 500 euro) con l’eventuale aggiunta di un mini-Daspo (il provvedimento di allontanamento) di 48 ore dal luogo in cui è stato commesso il fatto (sedersi).
Pur di non ammettere i limiti e le contraddizioni di un modello di crescita economica fondato sul consumo, nelle piazze della movida si moltiplicano confini, barriere, limiti. Alcuni invisibili, altri molto tangibili. Pedane, tavolini, sedie invadono le piazze diventate tutte dehors, estensione di locali e ristoranti, di quelle attività che hanno più sofferto il blocco dei flussi e invocato per mesi la riapertura nonostante il rischio sanitario fosse tutt’altro che contenuto. Quando, con un «rischio calcolato» la riapertura è arrivata, accompagnata poi da un Green Pass che garantisce la libertà di consumare, l’economia del consumo ha divorato ancora più spazio urbano. Il salvataggio statale del comparto dei pubblici esercizi – che costituisce oltre l’80% delle aziende classificate come turistiche secondo la Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi) – ha tenuto in vita il settore mentre il turismo era in pausa. E se la pandemia sembrava una buona occasione per ripensare logica della valorizzazione turistica – il principale strumento di gentrificazione delle città – la risposta è stata, semplicemente, una sua intensificazione.
La pandemia, e poi la malamovida nelle piazze turistiche, non sarebbero che incidenti di percorso. La mercificazione dello spazio urbano procede violentemente con nuove recinzioni ed enclosures. Con diversi strumenti: non solo confini tracciati a terra, ma lo spostamento, del tutto arbitrario, del confine tra legalità e illegalità per criminalizzare ogni uso dello spazio, diverso dal consumo. Siamo di fronte a una combinazione di entrambe le strategie: Daspo, zone rosse e, nell’impossibilità di estendere queste, un elenco di comportamenti illegali e di rispettive sanzioni – la tassonomia dell’indesiderabilità sociale, per dirla con Alessandro De Giorgi – sempre più lungo e aspro.
Chi colpisce il Daspo urbano
Dobbiamo a Marco Minniti, ministro dell’Interno del governo Gentiloni, il decreto sulla sicurezza (d.l. n.14/2017) che ha introdotto la possibilità per i vigili urbani di disporre un ordine di allontanamento di 48 ore e una contestuale multa da 100 a 300 euro a carico di quanti compiono i seguenti atti: impedire l’accesso o la fruizione a determinate infrastrutture; esercitare attività di commercio o parcheggio abusivo; stato di ubriachezza, atti contrari alla pubblica decenza. La reiterazione di tali condotte può comportare un Daspo urbano disposto dal questore, ovvero un ordine di allontanamento, che può durare un anno. Se violato, la pena può essere l’arresto – di nuovo, fino a un anno.
«Grazie al decreto, comportamenti del tutto privi di carattere offensivo possono innescare spirali di vera e propria criminalizzazione» sostiene Federica Borlizzi, che tramite accessi agli atti ha quantificato il numero di Daspo finora emessi a Roma, Milano e Genova: 12 mila in tutto. «Inutile dire che a pagare le conseguenze di queste disposizioni sono soprattutto i soggetti espulsi dallo spazio pubblico da valorizzare economicamente, quelli già più marginali nelle nostre metropoli: senzatetto, mendicanti, prostitute, venditori ambulanti».
Il 18 aprile 2019 il nuovo ministro dell’Interno Matteo Salvini prometteva «guerra totale al degrado urbano» con l’introduzione delle zone rosse, dando potere ai prefetti di applicare la normativa « anti-degrado» esistente nel caso i sindaci siano distratti. La sua circolare era stata preceduta da due ordinanze prefettizie, a Bologna e a Firenze. Il prefetto di Bologna Matteo Piantedosi (oggi prefetto di Roma), aveva istituito un «divieto di stazionare nell’area del parco della Montagnola ai soggetti che ne impediscano l’accessibilità e la fruizione con comportamenti incompatibili con la vocazione e la destinazione di tale area» (corsivo nostro). A maggio 2018 il provvedimento veniva esteso a molte altre zone. Ad aprile 2019 il prefetto di Firenze, Laura Lega, aveva fatto copia-incolla del provvedimento applicandolo a ben 17 aree della città e ampliando molto la platea di possibili destinatari di quello che la stampa battezza mini-Daspo, anche «in ragione dei consistenti flussi turistici». Ecco dunque spiegata la vocazione e la destinazione delle aree. Il provvedimento fiorentino veniva annullato dal Tar Toscana nel maggio 2019. Il motivo dell’annullamento è interessante: «il giudice amministrativo ci dice che l’ordinanza prefettizia non ha rispettato i requisiti di urgenza e grave necessità, necessari per la sua adozione, ex art. 2 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. La motivazione alla base dell’ordinanza del prefetto di Firenze era infatti l’incremento dei flussi turistici nella stagione primaverile; un evento che, il Tar evidenzia, non può essere considerato imprevedibile. Per questo il provvedimento è stato ritenuto illegittimo. Ma la sentenza desta perplessità perché non si esprime sull’estensione della tipologia di reati che il Daspo può colpire rispetto a quelli previsti dalla normativa nazionale, rimandando la valutazione ‘all’azione amministrativa’. Di fatto la sentenza permette ai prefetti di utilizzare queste ordinanze, purché nel rispetto dei fumosi requisiti di cui all’art. 2 del testo unico sulle leggi di pubblica sicurezza, al di là però dei limiti della normativa nazionale» spiega Borlizzi.
A Roma il regolamento di polizia urbana riflette il furore punitivo con cui la giunta capitolina ha deciso di estendere l’elenco di condotte dinanzi alle quali potrà trovare applicazione la multa e l’eventuale ordine di allontanamento. Ecco, allora, che il sedersi sui monumenti (art. 4, lettera a), il trascinare un passeggino sulle scalinate di un monumento (art.19, lettera d); il lasciare un cane libero in un parco o il calpestare le aiuole (art. 24 lettere c-e), vengono considerate «impedimento» all’accessibilità o alla fruizione di particolari aree urbane, con contestuale applicazione delle relative sanzioni.
«Si avvera quanto paventato da Tamar Pitch già nel 2013: la distinzione tra cittadini permale e perbene» afferma Borlizzi. «La distinzione con cui si intende governare le nostre città non è infatti statica ma, come scrive Pitch nel libro Contro il decoro (Laterza 2013) l’area dei perbene tende a restringersi e quella dei permale ad allargarsi’. Le multe e l’ordine di allontanamento divengono strumenti per sanzionare una pluralità di condotte che potrebbero mettere in campo anche i sedicenti cittadini perbene, con un mini-Daspo utilizzato – ad esempio – contro quei turisti low cost rei di aver consumato del cibo sulle scalinate di un monumento, non potendosi magari permettere di pagare il salato conto di un ristorante del centro di Roma».
Il diritto alla città è insomma commisurato alla propria capacità di spesa. Stazionare, stare fermi, sostare, in alcune aree della città, non si può fare. Guai a fermare i flussi, bisogna circolare. Si può stare fermi solo se si consuma, facendo quindi circolare il capitale. Secondo Borlizzi «dietro il divieto di sedersi sulle scalinate di Trinità dei Monti c’è insomma molto di più. C’è un modello di città che diviene un mosaico di zone rosse in cui la logica della dislocazione, propria del Daspo urbano, trova la sua massima applicazione. Il fine, per quanto brutale, è semplice: ripulire i centri storici delle metropoli, spostare gli elementi di disturbo del decoro in periferia, lontano dagli occhi giudicanti dei cittadini perbene».
Solo a Roma sono stati disposti 5.838 mini-Daspo. A essere colpiti sono soprattutto senzatetto, come dimostra il fatto che anche durante il lockdown, dal 9 marzo al 18 maggio 2020, sono stati disposti 320 ordini di allontanamento. «Dietro questi numeri ci sono storie di persone in carne e ossa che, molto spesso, non hanno una casa dove andare, e non hanno gli strumenti per difendersi dall’ingiustizia di queste sanzioni. Un signore originario del Bangladesh è il destinatario di ben 187 mini-Daspo dalla Stazione Termini di Roma. La somma da pagare al Comune per le multe accumulate è pari a 54.000 euro». Sono proprio gli spazi dei flussi – le piazze turistiche e le stazioni ferroviarie – quelle in cui si registra un più alto numero di Daspo.
L’elenco di nemici pubblici cresce e include poveri, turisti low-cost, e giovani in generale. È nei loro confronti che diventano evidenti alcuni processi descritti da Loïc Wacquant: il passaggio dallo stato sociale allo stato penale, la deregolamentazione economica, accompagnata da una iper-regolazione penale. L’azzeramento di spazi di socialità slegati dal consumo, l’aumento di disoccupazione, precarietà, sfruttamento e paghe da fame, l’assenza di occasioni di mobilità sociale e territoriale, di emancipazione dalla famiglia di origine (con, banalmente, affitti a prezzi accessibili), l’esplosione di manifestazioni completamente depoliticizzate di disagio «giovanile» forse come effetto di tutto questo, pongono interrogativi urgenti su che tipo di città stiamo (stanno) lasciando alle nuove generazioni. Invece di risposte, è arrivato il Daspo anti-risse contro la movida violenta.
A ottobre 2020 il Consiglio dei Ministri introduceva una norma battezzata «Daspo Willy» strumentalizzando la morte di Willy Duerte Monteiro, il giovane ucciso con un pestaggio il 5 settembre 2020 a Colleferro, territorio vittima di una crisi industriale e ambientale che, ha scritto Giuliano Santoro, cede a droga e gangsterismo «come modello di sviluppo alternativo alla fabbrica». Willy non è stato vittima di una rissa, ma di un’aggressione. E poco importa, ha notato Federica Graziani, se si legifera un reato in nome di una vittima di un altro reato.
L’ossessione per i comportamenti
L’assalto ai diritti e al debole sistema di welfare italiano – fatto non solo di trasferimenti monetari ma anche, in misura minore, di servizi – non sembra arrestarsi dopo la pandemia. Lo stato di degrado in cui versano i centri storici quanto le periferie è proporzionale al taglio di fondi, servizi pubblici e posti di lavoro nei settori chiave per la gestione ordinaria. Lo spazio urbano riflette questa degradazione.A Roma i giardinieri sono passati da 1.800 unità nel 1980 a 365 nel 2019. Ma per alcuni i problemi sarebbero l’incuria e l’indifferenza dei cittadini. Il tema economico, e quello dei diritti, è sostituito dall’ossessione per i comportamenti. La distinzione tra buoni e cattivi, tra virtuosi e pigri, tra meritevoli e criminali, accompagna lo smantellamento delle istituzioni del welfare, da rendere attività direttamente produttive, scaricando a livello individuale la responsabilità sociale. Da una parte disciplinando i permale con misure securitarie, dall’altra spronando i perbene con meccanismi di condizionalità, incentivi comportamentali e «spinte gentili». Su questo secondo fronte, la privatizzazione di spazi pubblici e il processo di accumulazione del capitale passa più subdolamente, e di nuovo, per l’assalto ai beni comuni. Il principio di sussidiarietà, al centro di un modello di welfare auto-finanziato, è un ottimo alleato per l’espropriazione del valore della cooperazione sociale, mentre contribuisce a epurare lo spazio urbano di tutte quelle forme di conflittualità che le sono proprie, che finiscono per essere criminalizzate. Come le lotte per tenere in vita spazi culturali e sociali fuori dal mercato, sgomberate una a una in tutta Italia negli ultimi anni. Ma anche le lotte per il lavoro in settori pubblici cruciali che ricorrono sempre spesso più al volontariato. E se il mutualismo informale ha tappato i buchi di un sistema di welfare inadeguato e impreparato a gestire gli effetti della pandemia, questo non ha prodotto alcun ripensamento del rapporto tra le istituzioni e i cittadini, tra le istanze sociali e i soliti noti imperativi economici del neoliberismo.
L’informalità non è più tollerabile. Le piazze hanno riaperto, e proiettano la società sul territorio: lo spazio pubblico dopo il Covid è sempre più normato, frammentato, diviso da confini, immateriali e non. E il meccanismo di accumulazione che di questi si nutre può riprendere, e ripetersi all’infinito, indisturbato.
Jacobin Italia, Le città Ingovernabili, 23 settembre 2021