Sarah Gainsforth: «Le città sono piene di case vuote. Si costruisce per creare asset finanziari»

Riccardo Maggiolo, Huffington Post, 22 Luglio 2023

Sarah, come si sono evolute le città italiane negli ultimi decenni?

Fino più o meno agli anni ’90 c’è stato un intervento diretto dello Stato nelle politiche abitative e urbanistiche. Poi qualcosa è cambiato. È come se da quel momento si sia rinunciato all’idea di poter gestire in maniera organica e strategica il settore immobiliare e lo sviluppo urbano. Il settore pubblico da protezione e alternativa al libero mercato è diventato sussidiario al mercato. Questo ha portato a un concetto di abitare sempre più centrato sul privato invece che sul pubblico; sull’individuo piuttosto che sulla comunità; sui flussi piuttosto che sugli abitanti. Io vivo a Roma: il numero di persone che si vedono per strada in centro è impressionante, ma allo stesso tempo se si alza lo sguardo ai piani superiori si notano moltissimi locali vuoti.

Un paradosso. Cosa lo ha originato?

È il meccanismo di estrazione della rendita. Un tempo i piani di edilizia residenziale pubblica erano possibili anche grazie a espropri a basso costo di terreni agricoli privati che venivano poi ceduti ai costruttori. Questi dovevano poi pagare una tassa sull’incremento della rendita, ovvero sul maggior valore di un terreno edificato generato dall’urbanizzazione. C’era insomma l’idea che fossero gli investimenti pubblici, i servizi, la cultura e la storia di un luogo a fare il valore delle case: non soltanto il mattone in sé. Ma questa consapevolezza si è persa, le norme sono cambiate, e quel valore non viene più redistribuito, ma privatizzato. Oggi il Pubblico non acquista terreni, ma per fare cassa vende aree e case. I prezzi dei terreni edificabili sono infatti diventati altissimi. Questo poi comporta che per rientrare dei costi i costruttori mirano a una redditività che solo abitazioni di lusso possono assicurare, mentre i progetti urbanistici pubblici davvero ampi e strategici non si fanno più.

L’immobiliare è diventato un affare finanziario?

Sì. Oggi spesso non si costruisce per fornire abitazioni, ma per creare asset finanziari: per questo si vedono tanti edifici vuoti. Avere immobili di proprietà anche se inutilizzati è infatti considerata una garanzia di solidità economica per cui si riesce ad ottenere credito e attrarre investimenti. Un controsenso, perché un capitale immobilizzato per definizione è un capitale che si deprezza. Ma nonostante questo, e nonostante i valori degli immobili in molte aree del Paese siano in contrazione da anni, il mattone viene ancora visto come un investimento se non proprio redditizio quanto meno sicuro. Per cui continua ad attrarre capitali, e continuano a nascere progetti immobiliari scollegati alle vere esigenze del territorio.

Anche la politica ha spinto in questa direzione?

Senz’altro. C’è stata una scelta politica chiara e decennale nel favorire la proprietà, anche oltre le reali necessità. Nel 1961 in Italia c’erano più famiglie in affitto che proprietarie del proprio immobile: oggi sono solo il 20,5%. La casa di proprietà è percepita come una sicurezza, mentre abitare nell’edilizia pubblica o in affitto viene associato alla povertà. Eppure non è sempre stato così: c’è stato un cambiamento culturale profondo. E la politica lo ha favorito, per esempio rendendo l’affitto sconveniente. Farlo infatti significava aumentare la rendita di fette di elettorato sempre più ampie e accompagnare la transizione di molte grandi aziende da produttrici di beni di consumo a holding finanziarie e immobiliari.

Infatti ora il problema dell’abitare è esploso, con affitti introvabili o carissimi.

Esatto. Nonostante ci siano tantissimi immobili inutilizzati, trovarne in affitto è difficilissimo. E non è solo un problema di valore delle abitazioni o di timori di non riuscire a sfrattare: anche nei paesini semi-abbandonati ormai si fa molta fatica a trovare chi affitta. Questo perché molti rifiutano l’idea di cedere il proprio immobile sfitto, di usarlo: come se fosse un bene rifugio, o un oggetto di lusso da cedere al massimo solo a una selezionatissima clientela, sempre più di nicchia – al punto da domandarsi se davvero esista. A Milano ho sentito scherzare che il prossimo target degli immobiliaristi saranno gli alieni.

L’immobiliarizzazione ha anche immobilizzato il paese socialmente?

Direi proprio di sì. Lo spazio urbano non è solo un insieme di edifici, ma tutto quello che accade fuori dalle case, negli spazi di incontro e di scambio. Questa è la funzione originaria delle piazze, dei parchi, delle strade: generare la possibilità che accadano cose impreviste; che si creino relazioni nuove. Oggi invece c’è la sensazione che le città siano diventate degli ambienti da usare a pagamento più che da vivere. Da gratuita e accessibile a tutti, la possibilità di incontrarsi è diventata esclusiva. Gli spazi pubblici vengono privatizzati o limitati nell’uso. In questo modo le persone si isolano, gli spazi si svuotano, e le città perdono forza.

Da luoghi di creazione di valore le città sono diventate centri di estrazione del valore?

Esattamente. La città nasce come concentrazione di opportunità; come uno spazio che trasforma le persone. Pensiamo alla fase di inurbamento del Dopoguerra, e della migrazione per lavoro soprattutto dal Sud al Nord: un fenomeno che arricchiva le città di capitale umano ma al tempo stesso generava flussi di denaro alle regioni più povere grazie alle rimesse dei lavoratori.  Oggi invece le città sono spazi di estrazione di ricchezza che ruotano intorno alla rendita più che alla creazione di ricchezza. Con il lavoro che è diventato più precario e gli stipendi che rimangono bloccati, i lavoratori essenziali fanno sempre più fatica ad abitare le città, mentre invece le politiche pubbliche preferiscono attrarre turisti, studenti, pendolari…

Questo fa in modo che i cittadini vengano messi in secondo piano?

Sì, perché c’è questa diffusa concezione che l’economia delle città si possa basare sempre di più sui flussi di persone provenienti da fuori, e non nella creazione di lavoro ad alto valore aggiunto per chi vi abita. L’idea è che la spesa di questi flussi possa sostituire gli investimenti pubblici, che come abbiamo visto sono stati tagliati e hanno provocato una diminuzione della diffusione e dell’efficienza dei servizi di cittadinanza. Ma come oramai si è visto bene con fenomeni come il turismo, si tratta di un’illusione. Perché il valore economico creato non solo non è sufficiente a rimpiazzare quello perduto, ma non viene neanche reinvestito e ridistribuito.

Da qui l’aumento delle disuguaglianze, anche generazionali?

Mi pare evidente. Da un’economia basata sulla produzione di beni siamo passati a un’economia basata su servizi, e quindi finanziarizzata. Questo favorisce chi ha già capitali, che tende a cercare quelle rendite che il solo abitare non garantisce più. Così ci troviamo con centri storici con popolazioni residenti sempre più anziane e periferie dormitorio dove vivono i più giovani. Anche per questo, credo, si nota ora una certa stanchezza per il modello di vita frenetico e arrivista delle grandi città, che una volta era molto più attrattivo.

Tra i più giovani aumenta la richiesta di smart-working, e cresce l’immaginario dei nomadi digitali: le città rischiano di svuotarsi?

Francamente non credo. Alla fine ciò che conta, nel lungo termine, sono i servizi. Non credo che un nomade digitale possa resistere a lungo nel borgo pittoresco, dove gli ospedali sono lontani, le scuole scarseggiano, raramente ci sono eventi culturali… Le città erano attrattive proprio per questo: perché anche con un reddito basso si poteva vivere bene grazie ai servizi efficienti e diffusi. Se non si rivitalizza questa offerta rischiamo invece che le città diventino sempre più polarizzate tra chi svolge servizi essenziali ma fa sempre più fatica ad arrivare a fine mese, e una popolazione ricca che invece vive principalmente di rendita.

Cosa dovremmo fare?

Abbiamo il problema di un enorme patrimonio immobiliare che fuori dai centri turistici sta perdendo inesorabilmente di valore. I cambiamenti climatici e il calo demografico poi stravolgeranno il quadro. Io credo che il nostro Paese dovrebbe cominciare a ragionare di politiche di rigenerazione e riuso, di arresto del consumo di suolo, di demolizione del patrimonio vetusto piuttosto che di costruzione. La proprietà immobiliare sganciata dal valore sociale è un ostacolo sia alla mobilità individuale sia alla possibilità di rigenerare territori: rende più difficile sia cambiare vita per i singoli che cambiare spazi per le comunità.  Se tornassimo a rivalutare lo spazio pubblico, quello privato smetterebbe forse di sembrare un rifugio o persino una prigione.

Hey, ciao 👋 Piacere di conoscerti.

Iscriviti per ricevere aggiornamenti sulle mie pubblicazioni e gli eventi a cui partecipo.

Non invio spam! Leggi l'informativa sulla privacy per avere maggiori informazioni.

Sarah Gainsforth

Sarah Gainsforth è saggista e giornalista freelance, scrive di casa e abitare, di turismo e gentrificazione, di politiche abitative e di trasformazioni urbane. Collabora con Internazionale e Il Manifesto. Il suo ultimo libro è L’Italia Senza casa, Politiche abitative per non morire di rendita (Laterza, 2025). Vive e lavora tra Roma e Goriano Valli.