Giacomo Giossi, Rolling Stone, 10 settembre 2025
Il tema della casa è da sempre al centro della ricerca di Sarah Gainsforth, a partire dalle sue prime pubblicazioni: AirBnB città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale (DeriveApprodi, 2019), Oltre il turismo. Esiste un turismo sostenibile? (Eris Edizioni, 2020), fino ai suoi ultimi lavori, in particolare: Abitare Stanca. La casa: una storia politica (Effequ, 2022) e L’Italia senza casa (Laterza, 2025).
Gainsforth ha infatti individuato nella casa il centro focale di una precarizzazione sociale che il neoliberismo ha prodotto negli ultimi trent’anni fino a ridurre all’estremo ogni spazio pubblico e quindi ogni diritto sociale di cui la casa rappresenta da sempre l’elemento più determinante. Senza una casa è infatti inimmaginabile pensare di poter costruire un’esistenza dignitosa. La speculazione immobiliare – come mostrano anche le inchieste milanesi – e la sempre più assente politica per gli alloggi pubblici stanno determinando un disagio sociale sempre più diffuso. Un movimento che trasforma la quotidianità di milioni di cittadini in una giungla e in una lotta dagli esiti sempre più nefasti, da un lavoro che è sempre e solo precario e quasi sempre sottopagato fino all’inevitabile impossibilità di poter accedere a un alloggio se non a prezzi di mercato e quindi oltre le possibilità economiche della maggioranza fragile del paese. Abbiamo posto alcune domande a Sarah Gainsforth in un momento in cui i nodi, in particolare a Milano, da sempre specchio del paese, sembrano arrivare al pettine.
Gli italiani quali proprietari di casa – con percentuali bulgare – quando si sono palesati nella storia del nostro paese?
La crescita della proprietà è un dato costante in tutta la seconda metà del Novecento, ma il sorpasso è avvenuto negli anni Settanta, e all’inizio degli anni Ottanta il 60% delle famiglie circa possedeva la propria abitazione. In realtà anche l’aumento delle famiglie in usufrutto va letta come parte di questa tendenza, trattandosi perlopiù di abitazioni di proprietà della famiglia di chi abita in usufrutto. A ogni modo, la diffusione della proprietà ha riguardato soprattutto i redditi più alti, così che le famiglie in affitto si sono così sempre più caratterizzate come nuclei a basso reddito. E questo ci dice qualcosa sull’effetto delle politiche abitative, che sono state essenzialmente politiche di promozione della proprietà, per diversi motivi.
Quale il senso di queste politiche abitative?
Nel secondo dopoguerra c’era sì l’esigenza di risollevare l’economia e affrontare le condizioni di povertà di milioni di persone (un problema che era stato rimosso dal fascismo e che fu al centro di una inchiesta del 1951 che tra le altre cose rivelò che la maggioranza degli italiani, il 60%, abita in case sovraffollate), ma le politiche abitative hanno solo in parte risposto a questa esigenza, nel senso che già alla fine degli anni Cinquanta il tema non era più la povertà in generale, ma la povertà alla condizione della classe operaia, considerata come sinonimo di arretratezza e non come il prodotto proprio delle trasformazioni economiche e sociali in atto. Insomma, sin da subito il target delle politiche abitative era funzionale al sistema economico produttivo, quello industriale e urbano, che si voleva promuovere. Per questo motivo (e anche questa è una costante) le politiche abitative furono e sono ancora oggi rivolte a coloro che si trovano in condizioni abbastanza buone per accedere alla proprietà, con misure mirate a promuovere quest’ultima piuttosto che garantire un’offerta in affitto per categorie sociali più deboli (oggi per la stessa classe media impoverita). La politica della casa è stata insomma storicamente a favore non della parte più povera della popolazione ma dei ceti medi. Anche nel Piano Ina Casa (il piano che ha realizzato le case popolari in Italia, avviato nel ’51) si prevedeva inizialmente l’assegnazione delle case, a sorteggio, in proprietà; deputati socialisti e comunisti si opposero e si decise l’assegnazione in affitto, per evitare di consolidare vantaggi e quindi diseguaglianze attraverso l’assegnazione in proprietà ad alcuni.
E che idea di società voleva disegnare la politica con questa prefigurazione sociale?
In generale, nonostante l’opposizione socialista e comunista, si promosse la proprietà come volano di avanzamento delle classi medie: la storia dei ceti medi è strettamente connessa alla storia della casa, è una storia “domestica”, e non è un caso che il declino della classe media sia dovuto anche alla fine di quelle politiche per la casa, con la finanziarizzazione dell’economia. L’aumento della proprietà non è stato un fenomeno “naturale”: garantire l’accesso di massa alla casa è stato un obiettivo politico (“non tutti proletari ma tutti proprietari”, diceva la DC) promosso anche come elemento di stabilizzazione e trasformazione culturale della società.
La fluidità sociale non ha cambiato anche la forma di possesso della casa?
No, la fluidità non ha cambiato la forma di possesso della casa. Il tema resta la proprietà privata dei beni: semmai è la proprietà che determina la “fluidità sociale”, il fatto che non si trova più una casa in affitto ordinario per residenti stabili, ma solo case per usi transitori, affitti brevi o medi. Si, la mobilità è aumentata molto, ma questo è dovuto in parte anche a come cambia l’offerta che si rivolge a segmenti di popolazione sempre più ricchi, sempre più mobili e sempre più stranieri, come studenti internazionali e turisti.
La sharing economy offre una libertà di movimento e d’uso o è solo la retorica di un’economia della condivisione che maschera un capitalismo aggressivo e socialmente deleterio?
La “sharing economy” si è rivelata una retorica per mistificare la mercificazione di tutto, l’apertura di nuovi mercati: si sono inventate nuove forme di accesso e di godimento di beni, ma pur sempre a pagamento! La “condivisone” riguarda l’uso di un bene, non la proprietà. Vendere l’accesso a nuovi beni ha semplicemente ampliato la quantità di beni da cui estrarre un valore economico. Quello che è cambiato è la strategia di valorizzazione della proprietà; alla base di tutto c’è ancora la solita vecchia rendita. Poi sì, sarebbero in crescita forme di abitare multi-locale, la mobilità è aumentata moltissimo, ma al limite possiamo ipotizzare una relazione di reciprocità tra aumento della mobilità e cambiamento dell’offerta abitativa. Di certo l’offerta di mercato non segue, non “risponde” a una domanda abitativa pregressa e in evoluzione, piuttosto la crea, altrimenti non ci sarebbe una questione abitativa. La finanza poi crea la propria domanda con dinamiche che sfuggono completamente alle teorie classiche basate sulla legge della domanda e dell’offerta.
In una situazione di forte deindustrializzazione e in cui la politica incita a un turismo senza limiti con la retorica del petrolio italiano, com’è pensabile disinnescare il ruolo della casa quale bene finanziario?
Attraverso politiche pubbliche, perché è una questione politica. Sia la trasformazione dell’economia urbana che la conseguente questione abitativa sono frutto di scelte politiche, ideologiche. Oggi la politica istituzionale in Italia è ferma agli anni Novanta, alla stagione dello smantellamento delle politiche pubbliche, della vendita del patrimonio pubblico, a un modello di città-globale che compete per attirare investimenti privati e turismo, in un quadro di definanziamento degli enti locali e dei servizi pubblici, di trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto. Il ciclo speculativo-finanziario iniziato negli anni Novanta proprio con politiche abitative di stampo neoliberali (fine del finanziamento dell’edilizia pubblica, abolizione dell’equo canone e finanziamento del sussidio per l’affitto privato, facilitazione dell’accesso al credito per l’acquisto) si è concluso con lo scoppia della bolla immobiliare nel 2008, e con politiche di austerità che, si è ammesso, non hanno funzionato e rispetto alle quali oggi in Europa c’è un’inversione di tendenza.
O la politica torna a fare gli interessi della maggior parte della popolazione o le città saranno sempre più desertificate, prodotti finanziari in cui sta scomparendo tutto quello che sta in mezzo tra povertà e ricchezza, come la classe media. Città fatte di condomini e studentati di lusso, con servizi privati all’interno, e fuori una massa di poveri che dorme in strada, come è a San Francisco, ma anche a Roma. Il tema è come tornare a fare politica oggi, come dare nuova sostanza a un apparato pubblico svuotato e colonizzato da interessi privati. Storicamente questo è sempre avvenuto dal basso, con le lotte. Oggi che le lotte sociali e ambientali sono criminalizzate, paralizzate da provvedimenti di stampo securitario, come farlo? È questo il grande tema.
L’Italia è un paese sostanzialmente invecchiato e in grande crisi demografica e in cui la produttività è piatta da oltre 30 anni. Quindi un Paese che ha bisogno di un terziario avanzato sia come necessità sia come opportunità. In questo contesto la casa può divenire un volano per la crescita economica e sociale?
Solo l’affitto sociale, cioè a prezzi calmierati, nella situazione attuale può essere un volano per la crescita sociale ed economica di un paese invecchiato e bloccato, per garantire la mobilità sociale e fisica alla base di un’economia produttiva, fondata su settori a più alto valore aggiunto di quelli turistici, come il terziario avanzato, che possono garantire posti di lavoro qualificati e salari più alti. Cioè un’offerta abitativa che sia funzionale alla crescita economica e non viceversa – come in un’economia turistica, in cui il turismo è funzionale all’estrazione di rendita dalle case. Un’offerta abitativa che non assorba la crescita economica come avviene oggi, perché se pure i salari aumentassero, nella situazione attuale questo aumento è assorbito dagli altissimi costi abitativi. La crescita dei valori immobiliari di fatto frena la crescita di tutto il resto.
Nel tuo ultimo libro, L’Italia senza casa (Laterza), affronti il tema degli studentati, oggi in Italia sono pochi e quei pochi sono affidati a imprese private che li trasformano in veri e propri alloggi di lusso. Quale alternativa è possibile?
Si potrebbe per esempio tornare a finanziare gli enti gestori di edilizia pubblica, farli funzionare, e affidare a lore la creazione e la gestione di un’offerta abitativa “sociale”, cioè a canoni più alti di quelli popolari, quindi il cosiddetto “social housing” di cui fa parte la categoria dello “student housing”, oggi gestito da privati. C’è poi tutto il mondo delle cooperative che potrebbe svolgere un ruolo di primo piano. Si potrebbe favorire la nascita di cooperative di studenti, che hanno accesso ai fondi pubblici, anche quelli del PNRR. Camplus, oggi il principale gestore di “student housing” privato, è nato proprio come cooperativa di studenti utilizzando inizialmente un finanziamento per l’edilizia residenziale pubblica.
Il PNRR ha tradito la sua funzione – sempre che l’abbia mai avuta – di allargare il diritto alla casa?
Il PNRR non ha mai avuto questa funzione. Si è perseguita una chiara scelta di destinare risorse pubbliche al patrimonio privato, e in particolare a quello dei ceti e degli attori più abbienti, attraverso il rilancio dell’attività edilizia, cioè la solita ricetta per rimandare la crisi ormai strutturale dell’economia in Italia, dovuta proprio alla debolezza di tutti gli altri settori. Alcune misure per la casa, come i Progetti per la qualità dell’abitare (Pinqua), erano preesistenti e hanno finanziato anche interventi che con la casa non c’entrano niente (tipo il rifacimento della stazione ferroviaria a Bari), altre sono intervenute in tema di rigenerazione urbana, che però senza politiche abitative si traduce in gentrificazione e quindi in un aumento di divari sociali ed economici. Il caso della misura per la creazione di posti letto per studenti è emblematico: la dicitura “diritto allo studio” è proprio scomparsa dal testo approvato, che è diventato un grande piano di finanziamento da 1,2 miliardi di euro di studentati privati e gestori vari tra cui alberghi ed enti ecclesiastici. Un disastro sotto ogni punto vista, considerando che quei posti alla fine neanche ci sono (non si sta raggiungendo il target) e che quei fondi sono a debito.
A quale paese si può guardare per cogliere una pratica e una legislazione che riporti la casa quale diritto di ogni cittadino? Quali le pratiche migliori fuori dall’Italia?
Nel libro cito il caso di Barcellona, dove da dieci anni a questa parte si è avviato un piano composto da tante misure, imperniato su due principi chiave: la fine della vendita del suolo e dell’edilizia pubblica e la promozione dell’affitto. È da qui che bisogna ripartire. Il piano di Barcellona è un esempio di come il pubblico può tornare a svolgere un ruolo forte nella pianificazione urbana, nel rispondere al fabbisogno abitativo di chi abita e lavora in città.
Quale l’obiettivo di una così deleteria politica per la casa?
L’intento, anche in Italia, era annegare il conflitto sociale di classe, la rivendicazione di diritti che sono stati effettivamente conquistati e poi codificati nelle norme urbanistiche, per avviare appunto la svolta neoliberista e il passaggio da una fase di redistribuzione della ricchezza a uno di concentrazione della ricchezza, proprio a partire dalla deregolamentazione urbanistica in favore di interessi privati. A partire dal boicottaggio della riforma urbanistica che avrebbe consentito il controllo pubblico della rendita fondiaria, nei primi anni Sessanta, da parte del “blocco edilizio”, i diritti della proprietà privata hanno assunto sempre più peso rispetto ai diritti della proprietà collettiva del suolo, della città e di altri beni comuni.
Perché ancora oggi è così difficile opporsi a questa dinamica perversa?
Questo furto di ricchezza è tuttora possibile perché il tema della rendita è diventato tabù: è difficilissimo parlare di una redistribuzione della ricchezza a partire per esempio dal tema fiscale, del catasto, senza scontarsi con reazioni emotive, del tutto immotivate, da parte di proprietari che sarebbero invece beneficiati da una riforma: se tutti i proprietari di case del Mezzogiorno, delle aree interne e di quelle urbane periferiche sapessero quanto è maggiore la loro imposizione in relazione ai valori immobiliari rispetto a quella dei proprietari di case locate a turisti nei centri di Roma e Milano, la vorrebbero eccome la riforma del catasto. C’è poi tutto il tema della rappresentanza politica, che di fatto si limita ai proprietari di case.