Piante al posto di persone. Questa l’idea di un comitato di quartiere di Trastevere, cuore turistico di Roma, che a fine agosto ha posizionato una dozzina di vasi e piante di alloro lungo un tratto di marciapiede in via Natale del Grande dove erano solite dormire alcune persone senza dimora. Il comitato ha poi celebrato il gesto pubblicando su Facebook un post con fotografie e didascalie. Giacigli di fortuna, cartoni e coperte ordinatamente piegate, ‹prima›. Freccia. Piante, ‹ dopo›. Il testo del post menzionava lo stato di degrado della via, il bisogno di decoro degli abitanti e la necessità di un intervento per garantire l’igiene pubblica urbana. Tutte queste necessità sarebbero state risolte con una mattinata di giardinaggio da parte di membri della cittadinanza che il problema della casa non solo non lo hanno, ma non lo hanno a Trastevere.
Ci si dovrebbe intanto chiedere perché persone senza dimora hanno scelto di dormire proprio lì. Il motivo è semplice: l’edificio che si affaccia su quel marciapiede in via Natale del Grande è vuoto. È chiuso, nessuno entra e nessuno esce, non c’è alcun viavai che possa disturbare il difficile sonno di chi dorme in strada. L’edificio era una sala cinematografica, il Cinema America, costruita nel 1956 su progetto dell’architetto Angelo Di Castro. Nel 2012 il cinema è stato occupato da un gruppo di ragazzi, i ‹ragazzi del Cinema America›, per salvarlo dalla demolizione. Il proprietario del cinema, infatti, era intenzionato a realizzare al suo posto una palazzina di appartamenti di lusso. L’occupazione, che aveva riaperto e fatto rivivere il cinema, è stata sgomberata su richiesta del proprietario, ma il progetto di speculazione edilizia è stato bloccato e il cinema è stato posto sotto vincolo di interesse storico-artistico da parte del Ministero dei Beni Culturali. Il proprietario però ha fatto ricorso e così, in attesa di una sentenza da parte del Consiglio di Stato, il cinema è in uno stato di abbandono.
La vicenda del Cinema America è emblematica dei processi che stanno ridisegnando le nostre città, svuotando e mercificando centri storici destinati sempre più solo al consumo turistico e a un ceto di abitanti facoltosǝ, respingendo e espellendo tutte le altre persone. Sono processi (di gentrificazione, di turistificazione) che incidono sul mercato immobiliare, che rendono costose e inaccessibili le case a fasce di popolazione non abbienti, che le sottraggono al mercato degli affitti, che le trasformano in mezzi di accumulazione di rendita. Il risultato di questa logica è l’aumento di persone senza una casa, ‹senzatetto› che infastidiscono gli stessi signori sotto il cui naso il Cinema America stava diventando un edificio di case di lusso. Il bersaglio della ‹cittadinanza attiva› dei comitati per il decoro non è mai la causa dei mali urbani (le ingiustizie sociali) ma i suoi effetti visibili. La retorica del decoro si produce così, nascondendo il problema dietro una fila di piante.
Le piante in città, poverine, hanno sempre assolto a una funzione sociale e moralizzatrice. Ma solo quando sono addomesticate e tenute sotto controllo. Quando si tagliano i fondi per il servizio giardini, come a Roma, e le piante crescono spontaneamente riprendendosi pezzi di città allora producono degrado. La giunta guidata dal Movimento 5 Stelle ha rivendicato di aver tagliato un fico spuntato da una fessura in un marciapiede a San Lorenzo perché abusivo. Ma insomma, sin dalle origini, i grandi parchi urbani sono il frutto di rapporti di forza e conflitti sociali che hanno modellato lo spazio. Lo sviluppo dei moderni agglomerati urbani, con la rivoluzione industriale, ha prodotto un impatto negativo sull’ambiente e sulle condizioni abitative di chi migrava dalle campagne, andando a abitare in baracche, cantine e slums senza acqua corrente o servizi igienici. Furono proprio le condizioni igienico-sanitarie in cui era costretta a vivere la classe operaia a motivare le riforme che diedero inizio all’urbanistica moderna. L’apertura di parchi pubblici fu tra le riforme approvate per migliorare la qualità urbana e le condizioni abitative della classe operaia, ma dietro alla loro creazione ci sono anche altre motivazioni.
PARTIRE DALL’AMBIENTE, ANCHE IN CITTÀ
Uno dei primi riformatori a cimentarsi con il problema dello sviluppo urbano in questa fase fu Robert Owen, il riformatore utopico. ‹Egli si accorge che il self-made man teorizzato dagli economisti e accettato dall’opinione corrente è solo un’astrazione, poiché le condizioni ambientali determinano in modo preponderante la sorte degli individui› scrive Leonardo Benevolo in Le origini dell’urbanistica moderna. Occorre dunque partire dall’ambiente. Questa attenzione è alla radice della visione di Owen che elabora ‹il primo piano urbanistico moderno sviluppato in ogni sua parte›, scrive Benevolo, proponendo di sviluppare piccole comunità su terreni adatti sia all’industria che all’agricoltura per sostenere la comunità, ‹il che avrebbe, tra l’altro, escluso la segregazione socioeconomica, e quindi ridotto le differenze nella topografia sociale della città› scrivono lǝ autorǝ di The Origin and Development of Garden Cities, an Overview. Il tema dell’ambiente era dunque per i pensatori utopici tutt’uno con quello socio-economico. Questa fusione è ben evidente nel concetto di città giardino teorizzata da Ebenezer Howard, uno dei pionieri della pianificazione urbana moderna: una città ideale che coniuga i benefici culturali della dimensione urbana e quelli ecologici della dimensione naturale. Howard era influenzato dalla teoria della comunità sociale cooperativa di Owen, ma anche da Progress and Poverty, pubblicato nel 1879, che discute il nesso tra l’aumento della ricchezza e quello della povertà nella città industriale. L’autore del testo, l’economista Henry George, identificava la causa di questo fenomeno nell’aumento del valore della terra, ovvero nella rendita. La soluzione individuata, come l’analisi del problema, è sorprendentemente attuale: l’istituzione di un reddito minimo. Con questi influssi, Howard costruisce la propria proposta di città giardino nel libro-manifesto Le città giardino di domani, pubblicato nel 1902. L’ideale utopico della città giardino è essenzialmente un ideale di giustizia sociale che fa perno sull’ambiente. La città giardino, non a caso, è ipotizzata a partire da un modello dettagliato di acquisto e di proprietà della terra dove costruire la città (‹un terreno di libera proprietà del comune›) e di reinvestimento dei canoni di superficie per la ‹creazione e manutenzione di tutte le opere pubbliche necessarie, come strade, scuole, parchi, ecc›.
Durante il 19º secolo l’élite urbana borghese promuove la creazione di parchi urbani enfatizzandone l’elemento moralizzante e la funzione di controllo sociale. I parchi avrebbero infatti una funzione civilizzatrice delle masse, oltre che di miglioramento delle condizioni di salute della classe operaia in quanto spazio aperto di decongestione dove respirare aria pulita. Il solo fatto di poter esperire delle bellezze naturali e di una idillica quiete bucolica avrebbe elevato (e tranquillizzato) gli animi popolari. Di fatto i parchi pubblici erano l’unico spazio in cui le diverse classi sociali entravano in contatto. Frederick Law Olmsted, il fondatore dell’architettura del paesaggio negli Stati Uniti, impiegò 4.000 operai per la creazione di Central Park a New York e riteneva che il potenziale ristorativo e calmante dei parchi urbani avrebbe facilitato l’incontro tra classi sociali diverse, allentando tensioni e conflitti tra queste. Olmsted pensava che i parchi avrebbero ‹ispirato un senso di comunità tra le classi urbane, annullando il risentimento dovuto alle disparità di ricchezza e costume›. Il parco avrebbe ‹aiutato i poveri e i degradati a elevarsi›, distogliendoli da attività ricreative considerate distruttive. Di fatto le élite borghesi che pianificavano i parchi si affrettarono a vietare, criminalizzandoli, i comportamenti più conflittuali degli utenti più poveri, stabilendo regole di condotta e di decoro pubblico, alimentando ulteriormente il conflitto sociale che si sviluppò intorno alle gestione dei parchi pubblici e ai comportamenti consentiti. Furono forse gli arresti, più che il paesaggio, a sopprimere quel ‹risentimento dovuto alle disparità› tra classi sociali. Quando il parco fu aperto nel 1859 la polizia ne effettuò ben 228. Quasi la metà degli arresti era per violazione del regolamento del parco, per atti quali ‹camminare sull’erba, raccogliere fiori, noci, ramoscelli, usare un linguaggio volgare›. Un altro 33% di arresti era per ubriachezza e condotta ‹disordinata›. Le aggressioni, le percosse e i piccoli furti rappresentarono circa il 15% degli arresti. La creazione di Central Park era avvenuta a partire dall’espulsione di circa 250 famiglie della comunità multietnica di Seneca Village, abitata da ex schiavǝ afroamericanǝ e immigratǝ irlandesi e tedeschǝ. Nel 1856 il comune espropriò il terreno, che era di proprietà dei membri della comunità, per farne un parco, facendo impennare il valore dei terreni circostanti. Per giustificare l’esproprio e l’espulsione della comunità afroamericana si disse che la zona era terra di nessuno, abitata da senzatetto. Così Olmsted descrive il terreno al momento del suo acquisto da parte dal comune: ‹Difficilmente si può immaginare un sobborgo più sporco, squallido e disgustoso. Un numero considerevole dei suoi abitanti era impegnato in occupazioni offensive agli occhi della legge e vietate vicino alla città. Furono quindi seguiti di notte nei miserabili tuguri, seminascosti tra le rocce, dove cumuli di cenere, mattoni, cocci e altri rifiuti erano depositati da coloro che li prendevano in città. Durante l’autunno del 1857, trecento abitazioni furono rimosse o demolite dai commissari del Central Park, insieme a diverse fabbriche e a numerosi stabilimenti per la produzione di latte scremato e di maiali›. La stessa creazione di Central Park è stata un’operazione di decoro urbano, di greenwashing. La criminalizzazione di comportamenti perlopiù inoffensivi nello spazio pubblico non è una novità dei nostri giorni, come non lo è il greenwashing di disuguaglianze economiche e sociali alla base di conflitti prodotti da usi escludenti e estrattivi dello spazio urbano e delle risorse naturali.
GREEN GRABBING
Mentre si promette una ‹transizione ecologica› e un futuro ‹sostenibile› per tutti gli abitanti del pianeta, gli spazi urbani, i territori e le risorse naturali sono al centro di processi di spossessamento, land grabbing e distruzione. Attualmente le foreste coprono il 30,8% delle terre emerse a livello globale; nel 1999 questa percentuale era il 32,5%: in 30 anni abbiamo perso 178 milioni di ettari di foresta sacrificati all’agri-business e a attività estrattive di sfruttamento minerario e petrolifero. Dal 1990 sono scomparsi oltre 420 milioni di ettari di foresta a causa della conversione del suolo verso l’utilizzo produttivo e industriale. Nel solo 2020, le zone tropicali hanno perso oltre 12 milioni di ettari di zone forestali. La perdita di biodiversità causata dalla progressiva scomparsa delle foreste è impressionante: dal 2019 oltre 20.000 specie di alberi sono state inserite nella lista rossa di quelle più minacciate, 8.000 delle quali tra quelle a alto rischio di estinzione, secondo FAO. Nel sud globale la battaglia per la tutela ambientale e la difesa della biodiversità va di pari passo con la lotta per la salvaguardia dei diritti umani e delle comunità indigene. ‹Il fenomeno della deforestazione è conseguenza di un sistema economico che ha gradualmente trasformato le risorse naturali e il patrimonio eco sistemico in asset su cui investire, in fonti di profitto immediato, alimentati da processi di liberalizzazione del commercio che permettono alle grandi imprese di investire in zone lontane alla ricerca di materie prime a basso costo e di bassa tutela dei diritti del lavoro e ambientali› scrive Alberto Zoratti di Fairwatch.
All’agricoltura intensiva, allo sfruttamento delle risorse naturali, al fracking e all’appropriazione di aree naturali al fine ottenere crediti di carbonio bisogna aggiungere un altro motore del land grabbing: il turismo. Un libro di recente pubblicazione, Tourism, Land Grabs and Displacement, analizza in dettaglio 31 casi di land grabbing causato dall’industria turistica in 26 paesi del Sud Globale. ‹Negli anni 2010, i più alti tassi di crescita del turismo sono stati registrati per i cosiddetti paesi meno sviluppati e quasi tutti (46 su 50) dipendono dal turismo come fonte primaria di guadagno in valuta estera. Sedici delle 20 economie di viaggi e turismo in più rapida crescita nel 2018 erano paesi del sud globale› scrive Andreas Neef. Si tratta di paesi postcoloniali e, in molti casi, da poco usciti da conflitti, ‹in cui i sistemi di governance della terra sono rimasti relativamente deboli e sono spesso incoerenti a causa delle sovrapposizioni tra i regimi giuridici derivanti dai tempi coloniali, le riforme fondiarie in stile occidentale intraprese dai governi postcoloniali e i sistemi di proprietà fondiaria consuetudinari. Gli investitori del nord globale e le élite politiche e economiche nazionali possono utilizzare tali debolezze e incoerenze nei quadri giuridici nazionali per perseguire i propri programmi economici attraverso il turismo, spesso a spese delle comunità indigene, delle minoranze etniche, dei piccoli contadini, dei pescatori artigianali e di altri gruppi marginalizzati che non hanno voce nei dibattiti nazionali sullo sviluppo› scrive Neef.
La privatizzazione e la mercificazione di territori naturali comuni, spacciata per strategia di crescita economica, produce costi sociali e ambientali altissimi. Il turismo, come altre attività estrattive, è una forma di uso dello spazio che esclude e mette in pericolo la vita della maggior parte della popolazione, quella più povera. Quello che sta avvenendo, nelle città come nelle aree naturali, è la sottrazione di spazio, di risorse, di ambiente naturale. E se la pandemia e la crisi climatica non hanno provocato un rallentamento dei processi di spossessamento in atto, quello che è cambiato è la loro narrazione. È una retorica sempre più green che, tra un ‹resiliente› qua e un ‹sostenibile› là, legittima e occulta quello che i comitati di quartiere accecati dal desiderio di decoro fanno sotto la luce del sole: cacciare i poveri, usando le piante come mezzi di esclusione anziché come strumenti di una cura, sociale e ambientale, di cui abbiamo urgentemente bisogno.
Menelique #6 Ecologie, autunno 2021
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