«L’aspetto peggiore di vivere in macchina è non avere un bagno». Armando, 74 anni, ha dormito in automobile per otto mesi. «Con la pensione sociale non siamo più riusciti a pagare l’affitto». Oggi Armando e la moglie abitano in un albergo occupato, l’Albergo Hotel Aniene, in via Tiburtina, periferia est di Roma, non lontano dalle case popolari di San Basilio. «Era vuoto» dice Gigi, chiudendosi alle spalle il cancello. Otto bambine giocano nel cortile. «Adesso ci abitano 200 persone, quasi tutti italiani, seguiti dal sindacato Asia USB. Ci sono tanti giovani, coppie con figli che guadagnano poco. Salvini parla sempre di famiglia, ma come si fa a fare una famiglia senza una casa?».
In Italia 165mila persone sono in graduatoria per una casa popolare. A Roma sono 12mila gli ammessi. 30mila persone sono in difficoltà con il pagamento dei canoni e 10mila hanno lo sfratto esecutivo, secondo Unione Inquilini.
L’Albergo Hotel Aniene affaccia sui tralicci dell’alta tensione e sull’imponente scheletro di una fabbrica abbandonata, l’ex Penicillina. Qui, tra rifiuti speciali, amianto e cumuli di rifiuti vivono circa 600 migranti, alcuni sgomberati da occupazioni vicine. L’ex Penicillina è in cima a un elenco di 90 stabili occupati a Roma, da sgomberare al più presto secondo il Ministro dell’Interno Matteo Salvini, che ha cancellato l’obbligo formale di trovare soluzioni alloggiative alternative.
Gli sgomberi sono iniziati. Dopo la prova generale con il Camping River a luglio, il 7 settembre è stata la volta di un edificio abusivo in via Costi, zona Tiburtina. «A Roma ho trovato un lavoro, un contratto con la DHL, ma non una casa» racconta Robert, un ragazzo nigeriano, seduto a terra tra zaini e borse. Piange. «Adesso non so dove andare». Forse alla Penicillina.
Uno stabile in via Carlo Felice, proprietà della Banca d’Italia, è tra i prossimi. Per le 24 famiglie si cercano soluzioni alternative. «Sono arrivato qui dieci anni fa dopo uno sfratto, faccio lavoretti precari». Roberto sale a fatica le scale fino al terzo piano. «Io sono solo, non rientro nella categoria delle “fragilità”. A me una casa non la daranno mai».
Ada ha paura di dover dormire in macchina. «La mia ditta è fallita e la banca si è ripresa la casa, avevo quasi finito di pagare il mutuo». Dal 2008 abita senza titolo in una casa popolare, da quando l’amica che l’ha ospitata si è trasferita. «Non sapevo dove andare. Mi sono autodenunciata, ho fatto il censimento, in dieci anni le ho provate tutte». Lei e altri nel palazzo attendono lo sgombero. «Ci sono tante famiglie con bambini qui, non so dove andranno. Io mi accontenterei anche di uno scantinato. Non sono né furbetta né una scroccona io». Così la Sindaca definisce gli abusivi.
Si stima che su 73mila alloggi ERP alloggi di proprietà del Comune e della Regione circa 10mila siano occupati abusivamente. Si tratta di circa 25mila persone senza titolo, secondo uno studio di Enrico Puccini. Nella maggior parte dei casi si diventa abusivi per mancanza di requisiti e di documentazione, domanda di sanatoria o voltura non accolta, pertanto su autodenuncia degli inquilini stessi. La casistica è varia, tanto che i report degli enti gestori distinguono tra otto diverse categorie di senza titolo.
Finora poco è stato fatto per Armando, Roberto, Ada. A luglio le parti sociali hanno abbandonato il tavolo di confronto sulla casa, a fronte della chiusura dell’Assessore alle politiche abitative Rosalba Castiglione sull’utilizzo di 197 milioni di euro, fondi ex-Gescal destinati dalla Regione Lazio all’emergenza abitativa. Secondo Castiglione la delibera sarebbe inapplicabile perché parte dei fondi beneficerebbe gli occupanti dei 90 stabili occupati, oltre a chi è nei residence e in graduatoria. Eppure molti occupanti sono in lista da anni per una casa popolare.
Il 70% degli abitanti nell’edifico ex-INPDAP occupato, in Via Santa Croce in Gerusalemme, è in lista per un alloggio popolare. «Recentemente una famiglia ha preso una casa dopo dieci anni di attesa» racconta Fabrizio. Qui abitano 400 persone, 180 nuclei, 18 etnie diverse. Anna e il marito, italiani, 63 e 67 anni, sono arrivati qui dopo uno sfratto. «Mio marito aveva una ditta edile, abitavamo in affitto. Poi con la crisi la ditta è fallita, adesso prendiamo la pensione sociale e lui fa qualche lavoretto in nero, non abbiamo alternative».
Marian aveva occupato una casa popolare a Bastogi, Roma nord. Erano in cinque, inclusa la madre, cieca, in un monolocale. «Mi sono autodenunciato, ho messo la residenza lì, dopo sette anni sono stato regolarizzato». Poi il trasloco in una casa più grande, dove però al Comune risultava di nuovo abusivo. Lo sfratto, e l’ingresso in un residence a Val Cannuta, ma con l’avvio del piano di chiusura dei residence le notifiche sono arrivate anche qui: «per due volte, negli ultimi tre anni, ci hanno detto che dobbiamo andare via».
Per chiudere i CAAT, i residence che costano 30 milioni l’anno, Il Comune di Roma ha istituito un nuovo servizio, il SASSAT: case affittate sul libero mercato, che il Comune deve ancora trovare. La metà dei richiedenti il servizio, circa 600 persone, è stata esclusa dalla graduatoria pubblicata ad agosto. Marian per via della residenza. Adolfo, precario e nullatenente, padre separato di due bambini di cui uno disabile, è stato escluso per una crocetta messa male sul modulo. La scadenza per la presentazione dei ricorsi è fissata al 17 settembre ma Unione Inquilini ha chiesto una proroga. «A Roma le cose importanti succedono a Natale o d’estate» precisa Marian.
A luglio sono partite le lettere per disdire i contratti di locazioni di 488 case del patrimonio disponibile a Testaccio, nel centro di Roma, per portare i canoni a valori di mercato. «Qui abitano anche assegnatari di alloggi popolari, persone con la pensione minima, persone malate» racconta Cinzia. Secondo le intenzioni di Castiglione, andranno nei SASSAT.
Sfratti, sgomberi, esclusioni dalle graduatorie, canoni a valori di mercato e soluzioni emergenziali non serviranno a risolvere il problema della casa. Potrebbero esasperarlo. Sgomberare 10mila occupanti di immobili, 25mila occupanti di case popolari, 600 abitanti dai residence e 500 dal centro storico, a parte richiedere anni di lavoro, produrrebbe una catastrofe sociale. E, paradossalmente, il fallimento dell’Ater, al cui bilancio contribuisco per il 49% gli abusivi e coloro che hanno superato la soglia di reddito (oltre 5mila persone), con il pagamento del canone sanzionatorio.
Esistono proposte alternative. Come l’immissione sul mercato di case vuote (114mila secondo l’Istat) e la rigenerazione di immobili inutilizzati. Il regolamento sui beni confiscati alle mafie ne prevede l’assegnazione anche a fini abitativi. É questa la strada individuata dall’Assessorato alle politiche sociali per alloggiare le famiglie sgomberate. Un’idea che ricalca la proposta fatta al Comune da 120 rifugiati sudanesi che da due mesi vivono accampati in via Scorticabove, a pochi passi dall’ex Penicllina e dall’Albergo Hotel Aniene. Sono stati sgomberati da un centro di accoglienza, gestito da una cooperativa implicata in Mafia Capitale. Loro sono determinati a restare lì, sotto il sole e la pioggia, finché non si trovi una soluzione dignitosa.
