Dove arriva il turisimo dopo un pò non cresce più niente

Extraterrestre, Il manifesto, 22 maggio 2025

Alle virtù del turismo si crede come a una religione. “Il turismo è il petrolio d’Italia!” ha
ripetuto per decenni la classe dirigente italiana mentre smantellava le politiche industriali e le
sostituiva con il primato della rendita per ragioni di consenso elettorale, per rimandare la crisi
nella quale siamo oggi immersi. Il turismo, in effetti, è un’ideologia: si dice che il turismo
porti ricchezza e benessere dove atterra, ma non ci sono molte prove di questo. Certo, il
turismo arricchisce alcuni, i proprietari delle terre e delle case, ma alla maggior parte delle
persone arrivano soltanto le briciole del sistema, insieme a tutti i suoi costi. Di più, non solo
pare che il turismo arrivi dove cresce l’economia e non viceversa: dove arriva il turismo,
dopo un po’ non cresce più niente.
Nel 2020 i centri storici delle città italiane sono rimasti a lungo deserti. Il turismo urbano
nell’epoca dei voli low-cost e degli Airbnb era arrivato come uno tsunami e ha svuotato le
case. Dove i turisti hanno sostituito i residenti, i negozi non hanno riaperto neanche quando è
finito il periodo di confinamento imposto per fronteggiare la pandemia da Covid-19.
Innestandosi sui processi di cattura ed estrazione di rendita dalle case, a cui in Italia non c’è
alcun limite, il turismo è diventato uno strumento di valorizzazione immobiliare e ha
contribuito a innescare la crisi abitativa che oggi colpisce anche i ceti medi che lavorano,
mentre la crescita di flussi temporanei che consumano risorse e servizi pubblici produce costi
sociali e ambientali elevati. Negli ultimi dieci anni il turismo si è diffuso come un’epidemia
nel tessuto urbano, sociale ed economico delle città, omologandolo, livellandone la varietà e
riducendo tutte funzioni non legate al consumo. Le città sono diventate tutte uguali, più
prevedibili, e più noiose.
In parte questo è successo perché nel turismo da decenni si sono concentrate le aspettative
di sviluppo, sia da parte delle politiche pubbliche che da parte di chi abita i territori, in un
processo di interiorizzazione del dogma del turismo come soluzione. Il turismo è stato infatti
interpretato come parte integrante delle politiche di sviluppo sia urbano che rurale, finanziate
a partire dalla metà degli anni Novanta dalle politiche europee e da programmi di sviluppo
che mirano a favorire la nascita di sistemi socio-economici integrati. Ma dove arriva il
turismo la terra, privatizzata ed edificata, diventa improduttiva e alla fine si è capito che
l’overtourism, il troppo turismo, fa male alle città. Eppure si continua a proporre il turismo
come soluzione per rianimare piccoli paesi, aree interne e rurali, i luoghi svuotati dal modello
di sviluppo urbano, industriale e capitalistico, che ha accentrato le risorse in pochi poli urbani
e ha abbandonato tutti gli altri. Ma questo significa proporre il problema come la soluzione.
Il modello economico proposto con lo slogan del ‘turismo petrolio d’Italia’ è un modello
estrattivo e coloniale, che usa i luoghi come giacimenti di persone e risorse da sfruttare. Il
turismo è uno strumento non per produrre ma per estrarre ricchezza dai territori, dai
paesaggi, dalle comunità che li abitano, dalle loro culture e identità. E se il turismo genera
ricchezza, bisogna sempre chiedersi: per chi? E chi paga i costi economici, sociali e
ambientali del turismo?

Oltre le retoriche, lo sviluppo turistico nei paesi del Mediterraneo diventa il campo di
forze e interessi in cui vince il più forte: non la popolazione locale, ma grandi attori che
predano risorse naturali e culturali. Il turismo arriva quando si costruiscono aeroporti, linee
ferroviarie e altre infrastrutture di trasporto grazie a finanziamenti pubblici e sgravi fiscali.
Arriva e cresce se c’è un’offerta ricettiva, se milioni di euro pubblici finanziano campagne di
marketing territoriale che reinventano i luoghi, se si finisce sui social, su Instagram e su
Google. Il salto di scala compiuto dal turismo negli ultimi vent’anni è oggi così problematico
da giustificare misure securitarie per gestire i flussi in ambienti fragili: il turismo è diventato
un problema di ordine pubblico.
Ma la turistificazione non è soltanto un problema di numeri: la ‘turistificazione’ plasma il
nostro pensiero, il modo in cui conosciamo la realtà. L’industria turistica si fonda sulla
dissociazione, sulla rottura delle relazioni dell’abitare per trasformare territori in luoghi di
vacanza e di consumo, per venderli come merci. La logica turistica separa, isola, ritaglia: la
vista dev’essere straordinaria, il prodotto di eccellenza, l’esperienza esclusiva; il turismo
isola le attrazioni dal loro contesto; semplifica, appiattisce e impoverisce la realtà, è
nostalgica, e guarda al passato. Il paesaggio, le città, le piazze sono il costrutto delle nostre
azioni sociali, produttive e culturali. Ma per poter essere museificati e venduti, l’illusione
turistica deve rompere la nostra relazione con essi: l’esperienza della realtà ci viene negata e
rivenduta sotto forma di esperienza turistica. L’idea del ‘borgo’, in effetti, che cosa è se non
la nostalgia per un abitare connesso? La turistificazione infantilizza e pacifica l’esperienza
del mondo imprigionandoci in un passato semplice e idealizzato, da cui non riusciamo più a
modificare il futuro.
Ovunque – anche nei ‘borghi’ – l’industria turistica non fa che accelerare processi di
spopolamento e approfondire divari sociali e territoriali, impoverire la qualità del lavoro,
nutrire relazioni economiche tossiche fatte di sfruttamento, dominanza e
dipendenza. Spopolamento e sovraffollamento turistico, il troppo vuoto e il troppo pieno, i
centri e le periferie, sono in realtà due facce della stessa condizione: quella di una crescente
inabitabilità. Come se ne esce?
Se ne esce cominciando a guardare oltre il turismo, a tutto quello che manca. L’ideologia
turistica è oggi il più chiaro esempio della capacità del capitalismo di costruire immaginari e
promesse di prosperità che legittimano l’esatto opposto e che producono una semplificazione
estrema delle rappresentazioni della realtà. La realtà infatti è più complessa di quella
ritagliata ad hoc per escludere tutti i fattori che concorrono ad attivare processi di sviluppo
locale, a partire dalle persone. Per questo le politiche di sviluppo devono necessariamente
partire dal basso, dalle persone che abitano i luoghi, che vi entrano in relazione, che
ricostruiscono contesti e ne progettano il futuro. La crisi del modello di sviluppo a cui stiamo
assistendo, nei poli come nelle periferie prodotte dal capitalismo moderno, è una crisi
ecologica, è una crisi del contesto, dei nessi e dell’interdipendenza dei processi, che il
turismo cancella e occulta nel suo isolare e ritagliare, e riguarda proprio le condizioni di
abitabilità dei luoghi, per la nostra specie e per le altre. È una crisi che il turismo, una
economia fondata sull’estrazione e sullo sfruttamento di risorse naturali, sulla nostalgia per
un mondo che contribuisce a distruggere, sta accelerando.

https://ilmanifesto.it/dove-arriva-il-turismo-dopo-un-po

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Sarah Gainsforth

Sarah Gainsforth è saggista e giornalista freelance, scrive di casa e abitare, di turismo e gentrificazione, di politiche abitative e di trasformazioni urbane. Collabora con Internazionale e Il Manifesto. Il suo ultimo libro è L’Italia Senza casa, Politiche abitative per non morire di rendita (Laterza, 2025). Vive e lavora tra Roma e Goriano Valli.