Il manifesto, 22 luglio 2025
Il dibattito su Milano rischia di perdersi in opinioni che nulla hanno a che fare con la questione principale: sotto inchiesta è finito non un vago modello di città «che ha fatto anche cose buone», ma un processo economico di stampo neoliberale che accresce la ricchezza privata.
La ricchezza privata cresce attraverso l’appropriazione di risorse pubbliche, grazie alla deregolamentazione della pianificazione urbanistica. Il tema è innanzitutto economico: la costruzione di edifici senza permessi di costruzione ma con una Scia, strumento previsto per le ristrutturazioni, ha comportato la riduzione fino al 60% degli oneri di urbanizzazione, cioè dei contributi in denaro che i costruttori devono versare ai comuni per la realizzazione di servizi. Questo ha permesso a investitori come i fondi immobiliari, che già godono di consistenti agevolazioni fiscali, di pagare meno oneri e di aumentare i guadagni a spese dei cittadini, che si sono ritrovati con meno servizi e abitazioni troppo costose da abitare. La cancellazione delle norme urbanistiche serve ad affidare al mercato l’evoluzione della città ed è accompagnata da un repertorio di argomenti che la giustificano, quali la presunta maggiore «efficienza» di procedure «semplificate». Le norme sono definite come «burocrazia», questioni «tecniche», «ostacoli» a uno sviluppo che ha prodotto disuguaglianze notevolissime.
Di fronte alle proteste dei cittadini e alle inchieste giudiziarie, i promotori di questo modello (il sindaco di Milano Giuseppe Sala in testa) hanno avuto l’ardire di sostenere che la loro fosse una interpretazione corretta della legge nazionale, i cui principi sono in verità chiarissimi, provando a estenderla a tutto il Paese con la ‘Salva Milano’, che avrebbe imposto a ogni comune in Italia il 60% in meno di fondi da spendere per realizzare servizi. Il tema è soprattutto politico: questo modello sottrae la trasformazione della città al controllo pubblico (la Scia non passa in consiglio comunale). Milano ha fatto da apripista alla privatizzazione delle città cedendo in alcuni casi anche gratuitamente aree pubbliche a privati. Così oggi, si sostiene, costruire case per i ceti medi e bassi costa troppo. Ma se le case fossero costruite su suolo pubblico, a scopi abitativi e non speculativi, gli unici costi da sostenere sarebbero quelli di costruzione. E se le plusvalenze realizzate attraverso le trasformazioni fondiarie e immobiliari private fossero tassate adeguatamente, il comune avrebbe più soldi per costruire edilizia sociale e popolare. Ma a Milano la politica stessa è stata esternalizzata agli interessi dei privati e non si può neanche parlare di negoziazione pubblico-privata: a Milano hanno deciso direttamente i privati. Questo processo riguarda però tutte le città italiane; una proposta di legge sulla rigenerazione urbana prevede esplicitamente di affidare lo sviluppo delle città a soggetti privati.
La riduzione degli oneri urbanistici, attuata per competere con città globali di un altro rango come Parigi e Londra nell’attrazione di capitali privati, ha impoverito gli enti locali, diventati ostaggio dell’attività edilizia privata nel quadro della riduzione dei trasferimenti statali agli enti locali e dell’obbligo di pareggio di bilancio. È questo un tema di cui bisogna tornare a parlare: l’affidamento al mercato non ha garantito livelli adeguati di servizi e quindi di diritti di cittadinanza ma ha prodotto nuovi costi per la collettività e processi di spopolamenti e desertificazione, sia nelle città che nelle aree interne. Nelle città, le stesse trasformazioni urbane autorizzate per fare cassa producono nuove esigenze in termini di servizi e costi crescenti, insostenibili per gli enti locali che finanziano le attività ordinarie attraverso l’attività edilizia e il consumo di suolo, un circolo vizioso che bisogna interrompere se si vuole davvero parlare di ‘sostenibilità’. Per farlo, però, bisogna disfarsi dell’intero modello di sviluppo milanese (e dei sui promotori) perché, come ha scritto con chiarezza l’urbanista Antonio Calafati, la deregolamentazione della pianificazione urbana è l’elemento costitutivo del progetto neoliberale, condiviso anche dalla sinistra italiana.