EDITORIALE
ARK, numero 55 | OSPITALITA’
Alcuni anni fa, mentre aspettavo un treno alla stazione di Genova, ho ascoltato alla radio un giovane e noto filosofo italiano dire che «in futuro cambieremo case come cambieremo vestiti». Ho strabuzzato gli occhi. Sostanzialmente, infatti, il nostro stava dicendo che l’accesso alla casa non sarà più un problema, e che della proprietà non ce ne importerà un fico secco. Fantastico, ho pensato. È una visione utopica che sarebbe bello realizzare: mi comunica un’idea di abitare fluido, di città aperta e ospitale, viva e vivace, di persone che si muovono in relazione allo spazio urbano e in contatto con il mondo, che si spostano, cambiano casa, viaggiano, crescono e realizzano desideri. Ma come si realizza questa visione? Quali sono i passaggi necessari costruire un sistema urbano, sociale, abitativo in cui potremo abitare le case senza possederle, recuperando quindi il loro valore d’uso per poterle cambiare spesso senza doverle ogni volta acquistare? Il tutto senza essere immensamente ricchi, ovviamente. Perché già oggi questo sistema in verità esisterebbe – si chiama affitto – ma funziona soltanto per una piccola parte della popolazione mondale che può fluttuare da una casa all’altra, da una camera di albergo a un resort, a una villa al mare a una in campagna, pagando però cifre molto alte.
In Italia le cause della scomparsa dell’affitto ordinario, quello accessibile a una popolazione giovane, straniera e mobile, sono molteplici: l’aumento della quota di famiglie proprietarie negli ultimi decenni, i piani di vendita di alloggi pubblici e di enti previdenziali che hanno ridotto l’offerta di affitto a canoni sociali, la trasformazione dell’offerta privata con la crescita del turismo, dei più redditizi affitti brevi e di quelli di medio periodo, transitori. Per questi e altri motivi la situazione in Italia è diametralmente opposta a quella profetizzata dal giovane filosofo: è uno scenario di sostanziale e fortissima immobilità, di declino demografico, di calo delle nascite e invecchiamento della popolazione, di spopolamento di aree interne (soprattutto nel Mezzogiorno), di aumento del patrimonio residenziale sfitto, vuoto, sottoutilizzato. Il paradosso è che l’Italia è piena di case vuote, anche nelle principali città, ma sono sempre di più le persone che cercano, senza trovarla, una casa in affitto. Si tratta di lavoratori essenziali ma anche di persone di ceto medio – insegnanti, infermieri, medici. Il Comune di Bologna ha recentemente pubblicato i risultati di uno studio commissionato ad alcuni ricercatori del Politecnico di Milano sul patrimonio residenziale privato potenzialmente vuoto: la stima, prodotta con un originale metodo di calcolo, è di 19mila case vuote nella città metropolitana, un numero molto elevato. Perché, in una città ad alta tensione abitativa, così tante case sono vuote? Uno dei principali motivi è il crollo della fiducia.
A giugno 2014 il New York Times ha pubblicato un articolo su L’evoluzione della fiducia. L’articolo descriveva «come Airbnb e Lyft hanno finalmente permesso che gli americani si fidino l’uno dell’altro». Poco dopo, un altro articolo elogiava «la vera innovazione di Airbnb – una piattaforma di fiducia – dove tutti possono non solo vedere l’identità di tutti gli altri, ma anche valutare gli host e gli ospiti come buoni, cattivi o indifferenti. Infatti coloro che utilizzano il sistema sviluppano rapidamente una reputazione visibile a tutti gli utenti» spiegava l’articolo. In verità la fiducia c’entra ben poco nel modello delle piattaforme digitali come Airbnb, che intermediano domanda e offerta di affitti brevi: alla base di tutto, infatti, c’è una transazione economica, non un atto di amicizia o di ospitalità gratuita. Del resto l’anonimato è uno dei tratti distintivi e più o meno apprezzati della città. In secondo luogo, gli utenti ripongono la propria fiducia nelle piattaforme, non nel proprietario dell’alloggio o nell’ospite. Soprattutto, però, alla base della fiducia riposta in Airbnb c’è una transazione economica.
Ed è proprio il valore economico delle case, il suo aumento anche grazie agli affitti brevi e medi, che sta trasformando le città in luoghi inospitali e ostili, svuotati di residenti, di spazi di scambio e relazione fuori mercato, di socialità e cultura, di innovazione, di sperimentazione e crescita. Tutto è finalizzato al guadagno, all’estrazione di valore economico dal nostro abitare. Dunque non basta annunciare scenari futuri utopici: bisogna anche avere un’idea di come cambiare la realtà per costruirli. Da dove partire? Molti comuni si stanno dotando di enti (agenzie sociali per l’affitto) la cui funzione è simile a quella delle piattaforme digitali: stabilire una relazione di fiducia con proprietari di case vuote attraverso delle garanzie economiche affinché le mettano a disposizione. Oltre a misure di questo tipo, però, c’è bisogno di un cambiamento culturale.
«C’è un lavoro da fare anche sulla comunità, sulla sua capacità di essere ospitale», ha detto Gianfilippo Mignogna, giovane ex sindaco di Biccari, un comune di duemila abitanti, in provincia di Foggia, un’area interna economicamente difficile, che ha invertito il trend di spopolamento che caratterizza i piccoli paesi del Mezzogiorno. Con l’attivazione di progetti e filiere dal basso, il Comune di Biccari è riuscito ad attirare nuovi abitanti: non solo turisti e visitatori, ma anche abitanti più o meno stanziali, giovani coppie italiane, stranieri, rifugiati. È stato fatto un lavoro sulle case vuote (una mappatura, un progetto per la vendita e l’affitto d’accordo con i proprietari) ma soprattutto, è stato fatto un lavoro di accoglienza, di ospitalità, un lavoro mirato non a estrarre valore dalle case ma a ridare un valore alle case attraverso l’abitare. Le case sono diventate le infrastrutture materiali su cui ricostruire il tessuto sociale ed economico del paese, e dal 2020 la popolazione di Biccari aumentata. Questo è stato possibile grazie a un cambio di mentalità, ha spiegato Mignogna: «l’accoglienza fa bene a chi viene ospitato e anche a chi ospita». In un Paese a rischio desertificazione demografica, dove i centri storici delle città sono svuotati dal turismo, l’esperienza di Biccari ci dice che il primo passo per costruire una visione utopica dell’abitare è riscoprire il valore non delle case, ma dell’ospitalità.