Dai ribelli irlandesi alla Global Sumud Flotilla. Le azioni imprevedibili che cambiano la storia

Il giorno della partenza delle navi della Global Sumud Flotilla sono rimasta tutto il giorno incollata allo schermo per guardarle mentre lasciavano il porto. L’attivista brasiliano Thiago Avila ha detto sorridendo: “Non ci possono fermare con la violenza. Ogni volta che ci attaccheranno, ci rapiranno, ci intercetteranno noi continueremo a tornare e più forti. Perché se reagiranno contro una missione umanitaria, le persone saranno con noi […]. Stiamo facendo ciò che è giusto, ciò che è umano e legale secondo il diritto internazionale”.

Ascoltando queste parole ho pensato alla storia dell’Irlanda e in particolare a un aspetto cruciale, spesso tralasciato. È una vicenda che ho già raccontato in “Abitare stanca” ed è frutto dei racconti di mio fratello Patrick.

L’Inghilterra affamò il popolo irlandese dopo che nel 1845 iniziò una carestia. Gli inglesi continuarono a tenere per sé stessi tutto il grano e le materie prime che sarebbero servite a sfamare la popolazione, così la carestia diventò una catastrofe umanitaria. In sette anni, oltre un milione di persone morirono di fame e un quarto della popolazione (2,1 milioni di persone) lasciarono il Paese. Fu la più grande emigrazione di massa mai vista in Europa.

In dieci anni, tra il 1846 e il 1855, i residenti si ridussero di un terzo e alla fame si aggiunsero gli sfratti di massa: la polizia distruggeva le case dei contadini che non potevano pagare l’affitto della terra e impediva loro di ricostruirle altrove, così in tutta l’Irlanda agli spossessati non restava che scavare buche nella terra e ripararsi con rami e foglie.

Dopo secoli di confische, nel diciottesimo secolo il 95% della terra irlandese era di proprietà inglese. La carestia fu l’occasione di imporre in Irlanda un’economia capitalistica di mercato, spossessando il popolo della terra e introducendo una “legge sui poveri” così prodotti, che non regolava affatto la povertà ma il lavoro, per creare una riserva di manodopera a basso costo per il nascente sistema capitalistico: i poveri erano distinti in abili e non abili al lavoro.

Quelli abili erano a loro volta suddivisi in poveri “pigri” e “veri”, meritevoli di assistenza che venivano “ospitati” nelle infime workhouse, costruite sul modello delle carceri americane. Fu lo stesso autore della Poor law irlandese George Nichols a dichiarare il reale intento di quella legge che inagurò un periodo di transizione da un “sistema di piccole tenute, che ora prevale in Irlanda, alla migliore pratica del lavoro salariato a giornata, e alla dipendenza dal lavoro salariato quotidiano per il sostegno”. Questa transizione, spiegava Nichols, “è generalmente caratterizzata da difficoltà e sofferenze”.

L’accaparramento della terra e il tentativo di sterminio della popolazione attraverso la privazione dei mezzi di sostentamento furono legittimati con la retorica della “rigenerazione” della società irlandese. La terra “vuota”, perché libera, non recintata, doveva essere “migliorata”, messa a lavoro, resa attiva, valorizzata. L’occupazione di terre libere per l’accumulazione capitalista, che separa le persone dalla terra, dal lavoro, dalla casa, è sempre presentata come il “miglioramento” di uno spazio raccontato come vuoto. E quando vuoto non è, lo si svuota.

Così può iniziare il processo di estrazione di valore: con le buone (promettendo posti di lavoro), o con le cattive, cioè radendo al suolo le città e sterminando le popolazioni che resistono alla spartizione coloniale della terra e la sua rigenerazione come resort turistico di lusso. “Il sistema che ci sta fottendo impedendoci di comprare una casa è lo stesso che decreta la morte o l’espulsione di ogni palestinese di Gaza”, ha detto l’attivista statunitense, veterano dell’esercito, Greg Stoker. Per fortuna, non sempre va così.

“Spesso, a posteriori, gli eventi storici ci sembrano inevitabili e necessari -mi ha detto una volta mio fratello- ma a volta la storia è dipesa da particolari configurazioni di azioni imprevedibili”. Si riferiva a due eventi che hanno segnato l’inizio della strada verso l’indipendenza: l’occupazione dell’ufficio postale a Dublino e alla Proclamazione di Pasqua il 24 aprile 1916. “Se ci pensi bene, era una follia”, diceva Patrick.

I ribelli non avevano il sostegno della popolazione ed erano ridotti a poche migliaia dopo che un piano di insurrezione nazionale era naufragato insieme alla nave che trasportava un carico di armi dalla Germania, scoperta dagli inglesi. Il nucleo di militanti di Dublino si ritrovò a scegliere, nell’arco di una notte, se portare avanti lo stesso la rivolta solo nella capitale o se abbandonare del tutto il progetto. Decisero per la prima e la mattina del 24 aprile occuparono alcuni edifici strategici della città. Il quartier generale era l’ufficio postale in O’Connel Street perché lì c’era il telegrafo che permetteva loro di comunicare con il resto del mondo.

Il nucleo di rivoluzionari che si proclamò “Governo provvisorio della Repubblica d’Irlanda” era composto da un manipolo di insegnanti, scrittori e poeti. Padraig Pearse, che lesse la dichiarazione di indipendenza, era un insegnante. Joseph Plunkett era un poeta: aveva studiato le grandi battaglie del passato ed era diventato direttore delle operazioni militari. Malato di tubercolosi, fece il suo ingresso nell’ufficio postale brandendo una sciabola, una sciabola cerimoniale. Éamonn Ceannt, un altro dei capi rivoltosi, era un membro della Lega Gaelica il cui obbiettivo era diffondere la lingua e la cultura irlandese.

L’occupazione dell’ufficio postale nel 1916 fu innanzitutto un’operazione culturale: “Un gruppo di poeti aveva deciso di sfidare l’impero britannico, il più forte del mondo. Chiaramente quell’operazione non aveva alcun senso o possibilità di riuscita sotto un profilo tattico e militare”, ancora mio fratello. Negli anni precedenti la rivolta avevano fondato un teatro, l’Abbey Theater, poi diventato il teatro nazionale irlandese. La declamazione della dichiarazione di indipendenza va letta in questo contesto: fu un gesto teatrale, di creazione di nuovo immaginario, di una nuova narrazione, una nuova realtà. I rivoluzionari speravano di innescare una risposta popolare. Quella risposta arrivò, anche alimentata dalla reazione violenta e brutale degli inglesi.

“Retrospettivamente attribuiamo un carattere di inevitabilità a quell’evento, lo raccontiamo all’interno di una sequenza ‘naturale’ di fatti che ha portato all’indipendenza dell’Irlanda. Ma se oggi fossimo lì, in quel momento, probabilmente ci sembrerebbe una follia. I ribelli, però, stavano ragionando su un altro piano, simbolico e metaforico: volevano creare una nuova storia, e ci sono riusciti”. I miei bisnonni sono emigrati dall’Irlanda, e i Black and tans sono stati mandati in Palestina. Ma come dice il mio fratello saggio, questa storia non è finita. Buon vento Global Sumud Flotilla.

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Sarah Gainsforth

Sarah Gainsforth è saggista e giornalista freelance, scrive di casa e abitare, di turismo e gentrificazione, di politiche abitative e di trasformazioni urbane. Collabora con Internazionale e Il Manifesto. Il suo ultimo libro è L’Italia Senza casa, Politiche abitative per non morire di rendita (Laterza, 2025). Vive e lavora tra Roma e Goriano Valli.