Dai materassi alle case vuote: il prevedibile impatto di Airbnb, quindici anni dopo

Fondazione Feltrinelli, 7 agosto 2023

In principio era il sistema di pagamento

In principio era la condivisione, la sharing economy, la fiducia tra utenti. Si tende a pensare questo: che Airbnb, la piattaforma digitale di intermediazione di affitti brevi turistici, si nata come uno strumento di condivisione di stanze in appartamenti abitati. Che si trattasse di stanze, piuttosto che di intere case, in appartamenti abitati, è vero. Ma l’idea che Airbnb fosse agli albori uno strumento di condivisione è contraddetta dalla semplice evidenza che, sin dalle origini, al cuore del nuovo modello di ospitalità c’era una transazione economica. In questo Airbnb si differenziava da altri portali di annunci preesistenti come Couchsurfing e Craiglist e dai siti web per lo scambio di case vacanza, dove gli utenti offrono e cercano ospitalità gratuita. Nei primi tempi, il pagamento su Airbnb avveniva direttamente tra utenti. Ben presto però i fondatori della piattaforma si resero conto della necessità di trovare un sistema sicuro e impersonale per assicurare le transazioni economiche, per eliminare non solo eventuali errori umani ma anche, come hanno raccontato, «l’inconveniente e l’imbarazzo di uno scambio personale di denaro contante». Così Airbnb incorporò nel sito il sistema di pagamenti utilizzando prima PayPal e poi, dal 2009, il sistema di pagamento di Amazon. In origine, quindi, era il pagamento.

È stato proprio il ruolo di intermediazione dei pagamenti da parte di Airbnb, che su questi trattiene una percentuale, che ha portato alla prima storica sentenza contro la multinazionale degli affitti brevi quando, nel 2019, la città di Santa Monica ha vinto una causa intentata da Airbnb dopo che questo aveva introdotto limiti agli affitti brevi. In quel periodo le piattaforme digitali si nascondevano dietro il principio stabilito nella Section 230 della Communications Decency Act, contenuto nella Telecommunications Act del 1996 – la legge che regola l’internet – che stabilisce che le piattaforme non sono responsabili per i contenuti generati dai propri utenti. Ma nella causa contro il comune di Santa Monica, la corte ha stabilito più o meno questo: «Airbnb, puoi ospitare tutti gli annunci di utenti che vuoi, ma non puoi guadagnare su quelli illegali». Ovvero: ha vietato le transazioni economiche per le proprietà che violavano la norma comunale, riconoscendo il ruolo di Airbnb nella gestione dei pagamenti per gli affitti brevi turistici. Del resto, se non guadagnasse una percentuale di quei pagamenti, Airbnb non sarebbe la multinazionale che è oggi. Una causa legale simile ha visto protagonista la città di San Francisco. Per non perderla, Airbnb ha patteggiato.

Se la questione del pagamento su cui Airbnb fa e fa fare profitti è così centrale, perché ancora oggi si continua a parlare di condivisione, anche se riferita al periodo delle origini? Sembra esserci un equivoco di fondo: da una parte si continua a scambiare la possibilità di accesso a un bene, rispetto alla proprietà, con la condivisione. Ma un contratto di affitto 4+4 non è una forma di condivisione, è una transazione economica. Quello che differenzia un Airbnb da un contratto 4+4, oltre all’uso della casa, è la durata della locazione, su cui si gioca la redditività: in Italia sono sufficienti in media 150 giorni di affitto breve turistico per guadagnare quanto un canone di locazione ordinario annuale. La novità di Airbnb rispetto a locazioni tradizionali da una parte, e a forme di condivisione della casa dall’altra, consiste nel vendere l’accesso a case in contesti urbani e non solo di villeggiatura per brevissimi periodi. All’intersezione tra queste due forme di godimento della casa Airbnb ha aperto un nuovo mercato. In secondo equivoco è quello per cui si addebita la trasformazione di Airbnb in uno strumento di mercato più che di condivisone all’uso che se ne fa. Sarebbero gli host, coloro che offrono le case ai turisti, i protagonisti di questo slittamento. Questo è vero, e l’uso che si fa di Airbnb è cambiato, ma le premesse affinché questo avvenisse c’erano già tutte nel modello di business creato dalla piattaforma.

La ‘sharing economy’ si è rivelata una retorica che ha occultato l’apertura di nuovi mercati. Sono state inventate nuove forme di accesso e di godimento di beni, ma pur sempre a pagamento. E se l’uso può essere condiviso, alla base di tutto il sistema c’è ancora la proprietà. Vendere l’accesso a nuovi beni ha semplicemente ampliato la quantità di beni da cui estrarre un valore economico; ha prodotto un salto di scala nella mercificazione di tutto – delle case, del tempo libero, delle automobili, di sé stessi. Ma non ha modificato la centralità della proprietà dei mezzi di produzione di ricchezza. Quello che è cambiato è la strategia di valorizzazione della proprietà. Si è allungata la filiera della valorizzazione con la comparsa di nuovi soggetti intermediari. È questo il nodo, quello della proprietà, che viene mistificato quando ancora si parla di Airbnb come di uno strumento di condivisione che ruota intorno all’accesso alla casa. Di fatto la diffusione di Airbnb ha reso sempre più inaccessibili le case – perché la proprietà ha via via ristretto il target dell’offerta.

La prospettiva di un guadagno maggiore derivato dagli affitti brevi turistici ha drogato il mercato immobiliare privato e l’offerta di case in affitto ordinario è andata scomparendo. L’aumento dei prezzi ha trainato i valori e i canoni di locazione, ripercuotendosi anche sul segmento ordinario dell’offerta, quello per residenti, anche nei quartieri fuori dai centri storici. L’impatto di questo nuovo modello di business sulla residenzialità, e quindi sui centri abitati, è stato e continua a essere devastante. In Italia Airbnb ha trovato un terreno particolarmente fertile per prosperare: zero regolamentazione e un’economia urbana da sempre incentrata sull’estrazione di rendita immobiliare. Nel giro di pochi anni Airbnb ha svuotato quote consistenti di case in posizioni centrali di abitanti, facendo dell’Italia il suo quarto mercato mondiale. Nel 2019 le case su Airbnb superavano quelle date in affitto a residenti nei centri turistici di sei città (Bologna, Firenze, Napoli, Palermo, Roma e Venezia) secondo l’analisi del geografo Filippo Celata. A Roma alcune zone hanno perso un terzo dei loro abitanti a causa degli affitti turistici. Con gli abitanti sono scomparsi i negozi di vicinato, sostituiti da attività turistiche, quasi tutte nel settore della ristorazione, i prezzi sono aumentati, e la qualità urbana dei centri storici è in caduta verticale. A questo contribuisce la privatizzazione dello spazio pubblico diventato un’estensione di quello privato, dove si può stare solo consumando, a pagamento. Dal lato della domanda di affitti brevi, se Airbnb rappresentava alle origini un’offerta più economica di una camera d’albergo, oggi i prezzi sono aumentati a dismisura, man mano che gli host si professionalizzavano e Airbnb diventata un’attività imprenditoriale, immobiliare. A Roma il prezzo medio per una notte in un Airbnb è di 215 euro a notte, a Napoli di 127, a Milano di 181, a Bologna di 131, a Firenze di 208, a Venezia 211, secondo i dati elaborati dal ricercatore Giacomo Salerno. Sono prezzi altissimi. Così Airbnb ha recentemente lanciato una nuova iniziativa per promuovere un’offerta più economica: Airbnb Stanza, «una nuova versione dell’Airbnb delle origini». Dunque anche Airbnb in qualche modo ammette di essere diventato un problema.

Oggi, mentre ancora parliamo di come regolamentare Airbnb in Italia, assistiamo all’evoluzione del suo modello, con una nuova offerta di affitti di medio periodo gestiti da nuove piattaforme che offrono una rendita fissa ai proprietari. Questa offerta, come quella turistica, sottrae case alle locazioni tradizionali e fa lievitare i canoni; non è un’offerta aggiuntiva a quella ordinaria e non è in competizione con le locazioni turistiche, ma con quelle residenziali. L’offerta di medio periodo è rivolta a una popolazione temporanea composta di turisti, lavoratori da remoto e studenti internazionali con una certa capacità di spesa. La novità, rispetto al periodo pre-pandemico, è la minore distinzione tra categorie di utenti: quello che caratterizza il segmento di mercato non è più la classificazione per tipologia di ospiti, ma la durata (e il costo) della loro permanenza. Anche i gestori privati di alloggi per studenti universitari, sia in appartamenti che in studentati di nuova costruzione o realizzati in edifici riadattati a questo uso, hanno riposizionato la propria offerta per intercettare diverse categorie di utenti, tra cui turisti. Il riposizionamento dell’offerta privata sottrae alloggi alla popolazione residente e a quella studentesca che non può permettersi di pagare una stanza mille euro al mese.

Una questione politica

A questo punto bisogna menzionare l’altro attore coinvolto nella trasformazione dell’abitare: il pubblico. È il pubblico che consente e rende possibile l’evoluzione del mercato privato e che come vedremo promuove e finanzia i nuovi modelli di business che stanno ristrutturando l’offerta di case e stanze in locazione. Se da una parte le politiche abitative intese come alternative al mercato e protettive rispetto agli eccessi speculativi sono state abbandonate quarant’anni fa, quando lo Stato ha sostituito l’intervento diretto nel settore della casa con i sussidi per l’affitto sul libero mercato, dall’altra parte l’assenza di politiche correttive del mercato è essa stessa una politica. Ma non si può neanche parlare di assenza di politiche: le politiche pubbliche promuovono attivamente e finanziano l’attrazione di popolazioni temporanee, la cui spesa dovrebbe sostituire gli investimenti pubblici e in particolare i trasferimenti statali agli enti locali tagliati negli ultimi decenni (10 miliardi di euro alle Regioni e 8 miliardi ai Comuni tra il 2008 e il 2015, solo in minima parte compensati da un aumento della tassazione locale). Ma i costi di questa strategia, quella che potremmo chiamare di attrazione della ‘classe creativa’ oltre che ricca, sono più alti di quanto si ammette: la gentrificazione sta innanzitutto contribuendo all’esplosione di una nuova questione abitativa in Italia. Il problema, chiaramente, non è se vogliamo o meno nuovi abitanti, anche temporanei – forse essi stessi espulsi da altre città dove gli affitti costano troppo rispetto ai salari locali. Il problema, semmai, sono le politiche pubbliche che invece di contrastare gli effetti di gentrificazione e di aumento delle disuguaglianze che questi nuovi abitanti possono produrre, li perseguono. La gentrificazione è una strategia pubblica, una politica urbana.

La vicenda dei posti letto per studenti finanziati con i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza è emblematica di una visione economica ‘pigra’ e di brevissimo periodo, che non guarda ai nessi tra processi e alla necessitò di promuovere il diritto allo studio anche per rafforzare l’economia italiana, ma che guarda solo alla solita vecchia economia del ‘mattone’. L’assenza di vicoli sui canoni e sulla destinazione dei posti a studenti nelle graduatorie per il diritto allo studio, cofinanziati al 75% dallo Stato con la quota nazionale di fondi europei per il piano Next Genration, si sta traducendo nel sussidiare la remuneratività di operazioni immobiliari nel segmento più di mercato redditizio, quello appunto dell’abitare temporaneo. Questi posti possono essere locati anche a turisti «quando non necessari all’ospitalità studentesca» già dal 2012, ma finora i posti per studenti sono stati gestiti prevalentemente dal pubblico. Oggi, con l’apertura di questo settore al mercato le cose cambiano e, poiché il Ministero dell’università e della ricerca (Mur) non pubblica i dati su quanti posti privati cofinanziati con fondi pubblici sono destinati al diritto allo studio (destinazione su cui non c’è alcun vincolo), è ipotizzabile che lo Stato stia finanziando posti per locazioni turistiche. Proprio l’assenza di vincoli, cancellati con la riforma della legislazione imposta dal Pnrr, la scarsa trasparenza e l’impossibilità di verificare la destinazione dei posti sarebbero all’origine delle richieste di chiarimento della Commissione europea sull’attuazione di questo investimento in Italia. Le richieste di chiarimento hanno prima bloccato l’erogazione della terza rata del Pnrr per oltre sei mesi, poi da questa rata hanno determinato l’esclusione di 500 milioni di euro, importo in cui è compresa la prima parte del finanziamento per i posti per studenti. Adesso è tutto da rifare: in una nota il governo ha parlato della necessità di «chiarire le condizioni e gli obiettivi della misura», ma non è chiaro come intende procedere.

Quello che è certo è che se l’economia urbana ha fame di flussi di abitanti temporanei che spendono più di noi abitanti, l’apparato legislativo che regola l’abitare è rimasto fermo agli anni Novanta, mentre gli strumenti di lettura per rilevare come cambiano le città e l’abitare sono concepiti per fotografare una situazione fissa, immobile e statica. Se il mercato ama il temporaneo, i diritti di cittadinanza sono collegati alla residenza, con eccezioni previste per la popolazione mobile e ricca che si vorrebbe attrarre (come l’iniziativa ‘Lavora nel mondo, vivi in Italia’ pensata per nomadi digitali e annunciata l’anno scorso dal ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso). Ma insomma, il quadro normativo non rispecchia più la società, non tiene il passo con le evoluzioni del mercato privato, forse intenzionalmente, e non offre più alcuna alternativa ad esso al di fuori di quote residuali di edilizia residenziale sociale, la cui realizzazione sta incontrando numerose difficoltà. L’incapacità di leggere e di dirigere le trasformazioni che investono le città, anche a partire dallo svuotamento di persone e risorse nelle stesse pubbliche amministrazioni, sta lasciando il terreno dell’abitare alle piattaforme digitali i cui modelli di business si innestano su vecchi processi di estrazione di rendita innovando le strategie di valorizzazione della proprietà. Siamo insomma ben lontani da nuovi modelli di accesso e condivisione della casa, lo spazio dove le contraddizioni ricadono.

La nuova emergenza abitativa, denunciata dagli studenti con le tende piazzate nelle università, riguarda fasce di popolazione sempre più ampie: non più solo i poveri, ma ceti medi con stipendi nella media. Il problema della casa è il risultato di quarant’anni di politiche neoliberali, di abbandono delle politiche pubbliche, di contrazione dello stock di case in locazione, di salari che diminuiscono e di una crescente precarietà lavorativa. In questo quadro la diffusione degli affitti brevi e di medio periodo, mediati da piattaforme digitali, ha rappresentato un salto di scala nell’individualizzazione delle logiche speculative e nella penetrazione del mercato in nuovi ambiti e modi dell’abitare. La soluzione a questa questione abitativa può arrivare solo a partire da politiche pubbliche che sottraggano le case al mercato, che le restituiscano alla funzione sociale, con un aggiornamento delle norme e l’introduzione di misure di redistribuzione della ricchezza patrimoniale, che anche grazie ad Airbnb oggi pesa sempre più. E di solito le politiche arrivano solo se sollecitate dalle lotte. Da strumento di aumento di aumento delle disuguaglianze, la casa deve tornare ad essere spazio dell’abitare, un abitare non confinato all’oggetto casa ma in relazione con il fuori, e che in questa relazione torna ad essere una pratica di condivisione.

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Sarah Gainsforth

Sarah Gainsforth è saggista e giornalista freelance, scrive di casa e abitare, di turismo e gentrificazione, di politiche abitative e di trasformazioni urbane. Collabora con Internazionale e Il Manifesto. Il suo ultimo libro è L’Italia Senza casa, Politiche abitative per non morire di rendita (Laterza, 2025). Vive e lavora tra Roma e Goriano Valli.