il manifesto, 9 ottobre 2025
La replica di Stefano Boeri al mio articolo Città con «Affresco di futuro». Per Roma il modello Tirana pubblicato da il manifesto il 1 ottobre, e la risposta del direttore Andrea Fabozzi.
Gentile direttore,
in qualità di componenti del Laboratorio Roma 2050, siamo rimasti sconcertati dalla superficialità e dai pregiudizi con cui è stata esaminato il nostro lavoro nell’articolo a firma Sarah Gainsforth dal titolo «Città con Affresco di Futuro. Per Roma il modello Tirana», pubblicato dal manifesto il primo ottobre scorso. Nel pezzo si parla di una «visione calata dall’alto» dimenticando l’attenzione che abbiamo costantemente dedicato all’ascolto delle molteplici realtà istituzionali, culturali, dell’attivismo sociale e del terzo settore che popolano da tempo di idee e progetti la città; ascolto iniziato due anni fa al Macro con due giornate dedicata ai progetti e alle politiche per Roma.
Si bolla inoltre come «illeggibile» la parte del lavoro dedicata a mappare tutte le trasformazioni in corso nella Capitale (l’Atlante), senza considerare i 1.400 progetti mappati in GIS e classificati per categoria, committente, tempistica e fonte di finanziamento. Si fa poi passare come idea «di Boeri» la ripresa e ampliamento di una ricerca Cresme sulle «microcittà» romane che risale alla fine degli anni 90, senza neppure entrare nel merito della nostra proposta di una nuova lettura del tessuto sociale e urbanistico della metropoli. Il Laboratorio ha in verità sviluppato un dialogo con l’assessorato al Decentramento, partecipando a numerosi tavoli di lavoro sull’aggiornamento delle zone urbanistiche. Si afferma inoltre che avremmo «ignorato» la Rete Ecologica romana, quando al contrario il Laboratorio ha sviluppato l’idea di un futuro Parco Metropolitano capace di connettere la variegata famiglia delle aree permeabili e organiche proprio a partire dal Piano Territoriale Paesaggistico del Lazio, che a sua volta recepisce e aggiorna la Rete ecologica già descritta nel Prg di Roma.
E ancora, si cita a sproposito la visione per Tirana 2030 elaborata nel 2014 dallo studio Boeri, affermando che avremmo proposto per Roma un «modello Tirana», proponendo così un fantasioso parallelo tra la Tirana attuale e la visione per Roma 2050 elaborata dal Laboratorio. L’articolo di Gainsforth dimostra non solo di ignorare l’abissale differenza tra due realtà cosi diverse, ma soprattutto di non saper distinguere tra una metodologia usata negli anni da Boeri per la lettura e la visione di molteplici realtà urbane (Losanna, Padova, San Paolo, Shanghai) e i contenuti di una visione per Roma che nel pezzo vengono appena accennati e che sono l’esito invece di un intenso lavoro collettivo. Se solo si fosse considerata la rilevanza che hanno avuto nel nostro lavoro temi squisitamente romani come il Tevere ed i suoi affluenti, il Gra e le consolari, nonché il patrimonio archeologico diffuso, si sarebbe evitato un paragone incongruo. Ma più di ogni altra cosa è inaccettabile il tono di sospetto che accompagna l’elenco dei compensi ai 10 componenti del Laboratorio, selezionati attraverso un bando pubblico, che hanno elaborato la visione per Roma 2050 dopo due anni di intenso lavoro. Forse l’autrice suggerisce che non avrebbero dovuto essere pagati?
Ci resta solo da confessare la delusione per un articolo che smentisce la capacità di approfondimento culturale e critica politica e sociale a cui siamo abituati come lettori del manifesto.
Stefano Boeri e gli architetti del Laboratorio Roma 2050
La risposta del Direttore Andrea Fabozzi
Gentile architetto, una risposta puntuale servirà a dimostrarle che non c’è alcuna superficialità e non c’è alcun pregiudizio da parte nostra verso il vostro lavoro, c’è al contrario un giudizio – severo, in effetti – che coinvolge anche l’amministrazione pubblica per aver deciso di delegare a uno studio privato la «visione» per la trasformazione urbana, processo che a noi pare eminentemente politico. Vicende quelle sì davvero sconcertanti nonché recenti in quel di Milano (e parliamo per intenderci di scelte urbanistiche da noi criticate per tempo, non di atti giudiziari dei quali non abbiamo nascosto i limiti) testimoniano cosa si rischia quando si privatizza la progettazione.
Dunque, per venire alla sua lettera a partire dalla presunta attenzione e ascolto che caratterizzerebbe il Laboratorio 2050, lei ha dimenticato di precisare che si è trattato sì di colloqui ma «mirati», cioè con singoli portatori di interessi selezionati da voi. Tra questi c’era anche Sarah Gainsforth, l’autrice dell’articolo, individuata come rappresentante della società civile romana, categoria che rappresentava però solo il 10% del campione da voi composto, il restante 90% essendo stato scelto tra accademici e operatori culturali (anche stranieri), enti pubblici, ordini professionali e mondo immobiliare.
Se abbiamo scritto che l’Atlante è illeggibile, molto semplicemente è perché la mappa GIS – cioè l’unico strumento davvero utile a comprendere se si tratta di un lavoro innovativo o di una ripetizione di quanto già disponibile sul sito “Roma si trasforma” – non è stata pubblicata. Quanto alla ripresa della ricerca Cresme, che in effetti è parecchio datata (1999), andrebbe detto chiaramente se l’intenzione è quella di aggiornare il Piano regolatore generale. Delle due l’una: o il vostro lavoro è solo una suggestione, uno studio tra tanti su Roma, andrebbe allora chiarita la ragione del finanziamento pubblico. Oppure questa mappatura tende a marginalizzare o a sostituire del tutto la pianificazione pubblica, allora è questione diversa che andrebbe dichiarata.
Ancora, la Rete ecologica romana è un elaborato prescrittivo al quale spetta (spetterebbe visto il ritardo) recepire le indicazioni del Piano paesaggistico regionale e non il contrario. Sono decine le associazioni ecologiste che hanno firmato un appello perché la Rete venga aggiornata e finalmente applicata (e invece il Comune sta modificando le regole urbanistiche per consentire progetti come lo stadio a Pietralata che contrastano con la necessità di fermare il consumo di suolo). Infine, gentile architetto, a lei è dispiaciuto il riferimento al «modello Tirana» nel titolo dell’articolo. Naturalmente ha ragione, ci sono abissali differenze tra le due città ma a noi interessava evidenziare l’applicazione dello stesso metodo (il «modello», appunto) per intervenire su entrambe. Detto questo, non mancano similitudini anche su «temi squisitamente romani», per esempio l’«Anello verde» intorno al Grande raccordo anulare che voi proponete ricorda molto il «Bosco orbitale» previsto a Tirana. E poi anche Tirana ha il suo fiume, il Lana (e proprio Boeri è stato incaricato di progettare le sponde del «Tirana riverside»). E se nella capitale albanese uno dei vostri progetti strategici prevede «corridoi verdi e blu», a Roma la proposta «Città dell’Acqua» è così descritta: «Ogni spazio aperto diventa un’opportunità di trasformazione, parte di una infrastruttura verde e blu». Mi auguro che continueremo a leggerci reciprocamente, noi sicuramente non mancheremo di leggere i vostri progetti.