Nell’ultimo decennio Roma è stata investita da processi di trasformazione, caratterizzati da crescente intensità e velocità, avvenuti al di fuori di qualsiasi capacità di lettura e di intervento tempestivo da parte della politica. Dal 2008 la città è stata segnata da tre crisi economiche consecutive: quella finanziaria nel 2008, quella del debito sovrano nel 2011 e l’attuale crisi sanitaria. Oggi la pandemia sta producendo l’accentuazione di alcune dinamiche – l’aumento delle disuguaglianze, la desertificazione del centro storico, la crisi del commercio di vicinato in alcune zone, l’emergenza abitativa, tra le altre – determinando nuovi bisogni che la politica è, di nuovo, impreparata ad affrontare. L’assenza di pianificazione dei processi urbani, di una visione e di una strategia per Roma, sono un dato strutturale e una costante nel dibattito sul futuro della Capitale. Con l’avvicinarsi della prossima scadenza elettorale, in uno scenario estremamente dinamico di trasformazione della città, vale la pena avviare una riflessione che vada oltre l’auspicio di un rafforzamento del ruolo della politica nel governo di Roma. Una riflessione che sia propedeutica, e che focalizzi l’attenzione sugli strumenti di lettura della città a disposizione della politica. Come conoscere Roma e le sue esigenze? Come, con quali dati, analisi, sulla base di quali considerazioni e valutazioni, si costruiscono le politiche per Roma? E dunque come, attraverso quali progetti, impiegare in maniera efficiente i fondi pubblici per Roma? E come valutarne gli effetti?
Materia prima dell’economia digitale, i dati sono anche la principale risorsa per l’organizzazione di servizi, spazi e politiche urbane. Almeno in teoria. Perché a Roma spesso i dati non ci sono, quelli che ci sono spesso non sono pubblici, quelli che sono pubblici sono insufficienti e frammentati tra enti con competenze diverse che non comunicano tra loro. In altri paesi sono stati creati istituti pubblici al solo scopo di rilevare ed elaborare dati per costruire informazioni sul territorio. A Parigi l’Osservatoire national del politique de la ville raccoglie e pubblica dati, elaborazioni e rapporti aggiornati su tutti i temi della politica cittadina, dallo sviluppo economico, alla salute, all’ambiente, alla casa, solo per citarne alcuni.
A Roma la carenza di dati e informazioni istituzionali è stata in parte colmata, negli ultimi anni, da studi e ricerche che provengono perlopiù dal mondo universitario, ma non solo: le esperienze di Mapparoma e dell’Osservatorio Casa Roma sono due esempi di progetti indipendenti che hanno saputo restituire alla città un patrimonio di dati e conoscenze di base che mancava. Keti Lelo di Mapparoma, Enrico Puccini dell’Osservatorio Casa Roma, e Carlo Cellamare, docente alla Facoltà di Ingegneria dell’Università La Sapienza, hanno negli ultimi anni posto al centro del dibattito pubblico il tema dell’inadeguatezza dei dati e degli strumenti di lettura della città, e la necessità costruire nuove rappresentazioni territoriali di Roma.
La difficoltà di reperire dati aggiornati e dettagliati sulla città si rivela spesso insormontabile. Mapparoma ha dovuto accontentarsi dei dati dell’ultimo censimento Istat del 2011, nonostante l’Istat abbia una banca dati aggiornata che incrocia i dati dell’Agenzia delle Entrate, della Camera di Commercio e dell’INPS. «Noi li abbiamo implorati per avere questi dati in forma aggregata, per garantire la privacy, a un livello territoriale opportuno, per esempio per quartiere» racconta Keti Lelo. «I dati serviranno ad aggiustare le stime del prossimo censimento Istat. Nel frattempo, noi non abbiamo potuto usufruirne».
Il progetto Mapparoma è nato nel febbraio 2016 con l’obiettivo di fornire nuove chiavi di lettura per comprendere Roma e le forti differenze socio-economiche che ne caratterizzano il territorio. Nel 2019 il materiale raccolto con il blog è stato aggiornato ed è diventato un libro, Le Mappe della Disuguaglianza, una geografia sociale metropolitana, edito da Donzelli. L’intuizione iniziale, quella di unire rigore scientifico e un linguaggio accessibile per creare uno strumento di divulgazione dei dati su Roma, si è rivelata giusta. «Ad ogni ricorrenza elettorale Roma torna oggetto di dibattito, ma assistiamo a narrazioni stereotipate, superate, che non corrispondono alla realtà. Spesso chi aspira a governare Roma non conosce la città. Il nostro tentativo è stato quello di creare uno strumento di conoscenza della città, a disposizione dei cittadini e dell’amministrazione. Abbiamo voluto far parlare i numeri, senza la sovrastruttura retorica» racconta Keti Lelo.
Mapparoma ha colmato un vuoto. Gli enti pubblici incaricati di fare ricerche sulla città svolgono perlopiù studi ad hoc. Si tratta però di approcci settoriali che restituiscono fotografie parziali. Manca un lavoro sistematico: non c’è un lavoro costante di analisi e di divulgazione di informazioni sulla città, perché la politica possa trarne delle valutazioni. Manca una cultura dei dati.
«Lo spazio urbano è multidimensionale, abbiamo bisogno di strumenti adeguati per leggerne la complessità» sostiene Keti Lelo. «Tenere insieme le diverse dimensioni urbane – spaziale, economica e sociale, richiede un approccio multidisciplinare. Il blog Mapparoma è nato proprio dall’incontro di competenze in diversi ambiti per restituire una visione complessiva della città». Ma spesso mancano i dati elementari per le singole dimensioni. «La città è uno spazio economico, eppure di spazio economico si parla pochissimo. Non ci sono dati: sono anni che cerchiamo dati sulle attività economiche a Roma e non li abbiamo. Come si fa a ignorare questa dimensione?». Tra le fonti di Mapparoma i dati della Camera di Commercio non figurano. Dove trovarli? Alla voce “attività produttive” del portale open data della Regione Lazio sono pubblicati i censimenti delle attività produttive per categorie. I dati sono aggiornati al 2013. E se alla voce “attività economiche” dell’Osservatorio parigino sono scaricabili report aggiornati sulle occupazioni e i settori di attività per quartiere, alla sezione “commercio e impresa” del portale open data del Comune di Roma i dataset disponibili elencano le pratiche inviate allo Sportello Unico delle Attività Produttive. Manca qualsiasi tentativo di elaborazione di questi dati.
Sulla base di quali informazioni si fanno le politiche? E sulla base di quali informazioni i cittadini possono parteciparvi? «A Roma molto viene fatto sulla base di considerazioni, esperienze, sollecitazioni provenienti da diversi soggetti, da pezzi di informazione, ma sempre in maniera poco strutturata e non sistematica. E soprattutto non si dà ragione delle valutazioni. Per esempio, il fatto di avere tanti quartieri di edilizia residenziale pubblica dove si concentra la povertà, comporta automaticamente (o meno) una certa politica? In base a quali dati e considerazioni? Non è chiaro il ragionamento che c’è dietro le valutazioni» osserva Carlo Cellamare. «Il tema purtroppo sembra essere questo: non si vogliono scoprire le carte su come si fanno le politiche. Le decisioni si prendono sulla base di alcune valutazioni la cui origine non è nota». Un esempio: recentemente la Sindaca Raggi ha annunciato il bando “Made in Roma 2” per il sostegno delle piccole imprese in periferia. Tra le diverse aree periferiche elencate nel bando compare Testaccio, quartiere in pieno centro storico. Perché Testaccio sia finita tra le aree con un disagio socio-economico della Capitale non è chiaro.
Se il Comune di Roma non conosce la città che amministra, l’attuale giunta non sembra intenzionata a farlo. La pandemia ha provocato un’ondata di richieste di contributi per l’affitto. «Ma il Comune di Roma non si è interessato di censire, mappare, elaborare queste richieste per capire quali sono i quartieri maggiormente colpiti dalle nuove povertà, dunque non ha reale contezza di come sta cambiando lo scenario socio-economico a Roma con la pandemia, del mutamento delle esigenze della popolazione» sostiene Enrico Puccini. Dal 2016 Puccini si occupa, da privato cittadino, di raccogliere e divulgare i dati sul patrimonio pubblico e le politiche sociali a Roma, attraverso il suo blog Osservatorio Casa Roma. «L’osservatorio sulla casa è uno strumento previsto per legge che ogni Regione avrebbe dovuto attuare. Ma con la spending-review del 2006 i fondi statili per il suo funzionamento sono stati tagliati» sostiene Puccini.
Grazie agli studi di Puccini oggi conosciamo il numero esatto delle case popolari a Roma, e in quali quartieri sono distribuiti. Dati che sembrerebbero scontati. Ma le case popolari sono censite in due database diversi: uno dell’ente regionale Ater, che detiene 48.000 alloggi, e l’altro del Comune di Roma, che ne detiene 24.000. «Nonostante le case popolari siano un bene pubblico con una finalità definita per legge, non vi è alcun obbligo di interazione fra questi due database, e non esiste una normativa comune per la diffusione dei dati. L’Ater per esempio li condivide soltanto dietro richiesta per finalità di studio. Ma è inammissibile che l’analisi della condizione abitativa nei quartieri di edilizia residenziale pubblica a Roma non sia fatta da un ente pubblico» commenta Puccini.
L’assenza di dati pubblici, la non condivisione e collaborazione tra enti con competenze diversi, le carenze nell’elaborazione dei dati e una scarsa cultura dei dati fa si che Roma, lungi dall’essere una Smart City, sia una città faticosa da vivere, difficile da governare, e apparentemente impossibile da conoscere. Anche solo riuscire a sapere a quale ente faccia capo la gestione di un’area, di una piazza, di un parco, diventa una «lotta inenarrabile» assicura Carlo Cellamare. «Il comune non ha una piena conoscenza del proprio patrimonio,non sa quale ente deve gestire cosa, quali aree verdi sono di competenza del Comune, quali dei Municipi, quali delle scuole, e via dicendo. Così ogni volta che c’è da prendere una decisione bisogna ricostruire tutto il percorso amministrativo, e questo richiede tempi molto lunghi. Spesso poi le categorie di classificazione dei beni seguono una logica tutta interna che non è compatibili con altre classificazioni di altri enti. Per esempio, sul tema dell’ambiente, abbiamo scoperto che il Comune utilizza una classificazione non comparabile con quella della Regione o con quella dell’uso dei suoli. Dunque ci troviamo con informazioni poco utili, poco gestibili».
Senza dati, in base a quali criteri vengono spesi i fondi pubblici? E di contro, a quanto ammonta l’economia che sfugge alle rilevazioni dell’amministrazione, l’economia sommersa, che finisce per rappresentare un costo ulteriore per la collettività? Un esempio di questo secondo fenomeno lo fornisce un rapporto, a cura di Sociometrica per l’Ente Bilaterale del Turismo nel Lazio, pubblicato a febbraio del 2020, sull’economia sommersa nel settore ricettivo a Roma. Il rapporto quantifica il sommerso in 13 milioni di presenze turistiche “fantasma” l’anno – ben il 30% di quelle ufficiali – direttamente riconducili al proliferare incontrollato di case vacanza. È da considerare che il dato equivale a una perdita di incasso del 30% della tassa di soggiorno, e fronte di costi sostenuti dal Comune per i servizi pubblici locali, di cui usufruiscono anche i turisti.
«Per scoprire la reale entità degli affitti brevi turistici a Roma abbiamo dovuto avvalerci dei dati resi pubblici da un giornalista australiano con base a New York – commenta Puccini – Ma non solo non conosciamo il numero di turisti che ogni anno visitano la Capitale, non consociamo neanche quello dei residenti di alcuni quartieri» sostiene Puccini. «Quanti sono gli abitanti di Tor Bella Monaca? Non lo sappiamo. Mancano dati elementari, basilari, imprescindibili. Come facciamo allora a pianificare interventi per questo quartiere?». Il problema, in quest’ultimo caso, è un problema di scala dei dati.
Tor bella Monaca è il più grande quartiere pubblico di case popolari d’Italia, il risultato di un Piano per l’Edilizia Economica e Popolare. Il Governo sta vagliando l’ipotesi di utilizzare quota parte del Recovery Fund per un nuovo programma di Edilizia Pubblica. Le linee guida del Piano di Ripresa e Resilienza affrontano la questione delle periferie con una prospettiva che tiene conto dell’emergenza abitativa, della qualità urbana e della lotta alle diseguaglianze. «Rispetto agli obiettivi delineati, di quali strumenti di conoscenza e valutazione delle criticità, di intervento e di monitoraggio, dispone la politica a Roma?» domanda Puccini. «Per conoscere la situazione a Tor Bella Monaca dovremmo conoscere una serie di dati – popolazione, condizione economica, condizione sociale, servizi, trasporti, e via dicendo. Il primo problema che incontriamo è che non abbiamo dati relativi alla sola Tor Bella Monaca».
I dati disponibili sono infatti relativi alle zone urbanistiche di Roma. La divisione amministrativa di Roma in 155 zone urbanistiche è stata adottata nel 1977, quando molti quartieri odierni non erano ancora sorti. «La Zona Urbanistica di Tor Bella Monaca è composta da quartieri estremamente diversi tra loro che tuttavia vengono uniformati statisticamente» spiega Puccini. Nella zona urbanistica di Tor Bella Monaca sono accorpate Torre Angela, una enorme quartiere di origine abusiva oggi abitata da una piccola e media borghesia; Torre Gaia, un quartiere residenziale recintato; e poi Tor Bella Monaca, un quartiere di edilizia economica e popolare con soglie di reddito molto basse. Secondo i dati elaborati da Puccini insieme a Francesca Cubeddu il 41% degli abitanti di Tor Bella Monaca è sotto la soglia della povertà assoluta. «Ma ufficialmente questo dato non emerge, perché Tor Bella Monaca è accorpata a Torre Angela e Torre Gaia, quest’ultimo un quartiere con un reddito medio molto più alto». Così gli indici del disagio sociale nella zona urbanistica non tengono contro della situazione dei singoli quartieri. «Il problema che si pone in prima battuta su Tor Bella Monaca è dunque non di poco conto. Se da una parte siamo abituati a ragionare in termini di quartieri come unità socio-economiche della città, da un punto di vista amministrativo i quartieri non esistono. Per questo è complesso sviluppare politiche locali mirate».
In Francia le analisi sulle città sono elaborate sulla base di una grigia di unità di 200 metri. Nel Regno Unito l’unità censuaria di base è determinata dal numero di abitanti, 1.500 per unità. «Ecco, nella zona urbanistica di Torre Angela, su cui insiste Tor Bella Monaca vi sono circa 412 unità territoriali francesi o 54 unità inglesi. Il confronto mostra bene quanto il nostro sistema di lettura territoriale sia a grana troppo grossa» afferma Puccini. La ridefinizione delle unità amministrative della città, con una maggiore attenzione alla scala dei quartieri, restituirebbe una lettura più realistica della città. «Nonostante sia molto difficile fare rilevamenti a questa scala, di fatto la città è organizzata per quartieri. Dunque un buon modo per conoscere Roma è seguire questa articolazione» suggerisce Carlo Cellamare. Anche perché con la pandemia la dimensione del quartiere, di prossimità e di commercio di vicinato, sembra tornare alla ribalta. Ma quanto siamo in grado di leggere questo processo in tempo reale?
Il tema della riorganizzazione amministrativa del territorio romano non è certo nuovo. «La proposta, fatta anni fa da Walter Tocci e ripresa più volte, di costruire una città metropolitana con una forte capacità di gestione del territorio appare più che sensata: Roma è ormai una città-regione» continua Carlo Cellamare. In questo scenario i municipi diventerebbero comuni metropolitani. «Infatti, pur essendo enti di prossimità, i municipi di Roma sono troppo grandi per gestire efficientemente i problemi locali più complessi. D’altra parte però non bisogna cadere nel localismo perché – avverte Cellamare – i problemi di Tor Bella Monaca non si risolvono dentro Tor Bella Monaca, ma nell’organizzazione complessiva di un territorio. Altrimenti si andrebbe verso una ulteriore forma di ghettizzazione, quando l’obiettivo è rompere queste dinamiche».
Se una nuova perimetrazione delle unità socio-economiche della città in base ai quartieri sarebbe utile alla ai fini statistici, un ulteriore elemento di riflessione è rappresentato dal fatto che molte delle dinamiche e dei problemi che investono i quartieri spesso non sono rilevabili attraverso dati quantitativi. Richiedono una conoscenza diretta, un’attività sul campo. Carlo Cellamare fa un esempio: «Prendiamo il tema criminalità organizzata così rilevante a Roma. Sulla criminalità abbiamo i dati contenuti nei rapporti di polizia, nel Rapporto annuale sulle Mafie dell’Osservatorio della Regione Lazio, ma questi non ci raccontano le dinamiche locali e il tipo di interventi da attuare. L’unica soluzione offerta da questi studi è di tipo repressivo. Ma il vero tema qui è come costruire economie locali che possano costituire una reale alternativa a quella criminale. C’è insomma un ulteriore livello di complessità da affrontare: c’è la necessità di una conoscenza delle dinamiche territoriali adatta a costruire politiche attive. Altrimenti le soluzioni sembrano automatiche, ma non è così». Il tema insomma è quello dell’approccio multidisciplinare, sollevato da Keti Lelo. «Senza l’integrazione di prospettive diverse non si comprende perché alcune soluzioni funzionano in alcuni contesti e non in altri, perché un certo uso dello spazio ha successo in una certa zona ma fallisce in un’altra, perché determinate economie fioriscono in un’area e non in un’altra. Questo tipo di comprensione nasce solo dalla contaminazione di diverse visioni e competenze» aggiunge Lelo.
Il territorio romano è estremamente vario ed eterogeneo. «Premesso che non ha più senso parlare di periferie ma di città, perché Roma è la sua periferia, la città ha bisogno di indagini diversificate, di strumenti di lettura e ragionamenti specifici per tipo di situazione e per tipo di quartieri: quartieri ex abusivi, quartieri pubblici, quartieri ricchi, quartieri costruiti intorno alle centralità di Roma, quartieri della città consolidata, della periferia consolidata. Insomma bisogna variare gli interventi e le soluzioni» conclude Cellamare.
A partire da una lettura dettagliata e multidisciplinare delle dinamiche urbane le politiche dovrebbero poi restituire uno sguardo più ampio. È solo in una prospettiva sistematica e organica, sovralocale, di integrazione di scale di analisi e di coordinando dei soggetti coinvolti, che si può affrontare il tema delle economie locali. «I quartieri sono oggetto di una molteplicità di politiche, nazionali e locali, di iniziative, contributi e finanziamenti. Nel caso di Tor Bella Monaca, per esempio, abbiamo l’Ater (l’ente regionale gestore delle case popolari), il Comune, e il Municipio, a cui fanno capo le politiche sociali e le erogazioni di diversi contributi, poi c’è la Asl, e infine l’INPS, che eroga il reddito di cittadinanza. Ma ad oggi manca un coordinamento di questi soggetti. Questo incide sulla qualità delle politiche e sull’efficienza della spesa pubblica» sostiene Enrico Puccini.
In altri paesi, come la Germania, la funzione di coordinamento locale dei soggetti attivi in un territorio spetta ai laboratori di quartiere. «Al di là della funzione di garantire la partecipazione dei cittadini, in Germania i laboratori di quartiere sono uno strumento di coordinamento e di monitoraggio organico all’amministrazione. Sono finanziati con 200 milioni di euro l’anno, perché sono considerati come un investimento: da un lato sono uno strumento di partecipazione attiva della cittadinanza alle scelte politiche, e dall’altro consentono, coordinando le azioni sui territori, di ottimizzare la spesa pubblica» racconta Puccini.
A Roma i Laboratori di quartiere furono avviati sotto la giunta Rutelli, quando fu costituito anche un assessorato per la partecipazione. In questa fase le organizzazioni territoriali, le associazioni e i comitati diventarono una forza propositiva e progettuale di Roma. Ma dopo una partenza promettente il dispositivo della partecipazione è diventato perlopiù uno strumento di creazione di consenso, di legittimazione di scelte imposte, di annullamento del conflitto sociale, svuotato di reale potere decisionale. In tutte le giunte succedutesi dopo Rutelli la partecipazione dei cittadini ai processi di trasformazione della città è stata ammessa entro limiti controllati, per progetti dagli esiti predefiniti. Se oggi Roma appare stanca, disillusa e sfiduciata, è anche per il tradimento della partecipazione.
Secondo Puccini «Molti strumenti, come i Laboratori di quartiere, sono già stati previsti e approvati, ma non vengono attuati. Per esempio il PRG prevedeva uno strumento, la “Guida per la qualità sociale degli interventi urbanistici”, in grado di valutare l’impatto sociale delle trasformazioni urbanistiche. Ma lo strumento non è stato mai né predisposto né approvato»
È anche per il vuoto di memoria amministrativa a Roma che se dovessimo elencare le politiche degli ultimi decenni ci troveremmo in seria difficoltà. «L’assenza di guida dei processi urbanistici è una malattia cronica di Roma, già il primo PRG di Roma arriva in ritardo e prova a incidere su processi già in atto» sostiene Keti Lelo. «In alcuni momenti l’amministrazione di è presa carico di gestire le trasformazioni, ha lasciato il segno, ma si tratta di episodi, di eccezioni. Per il resto, si tratta di intenzioni che non hanno mai trovano attuazione».
Se le politiche sono state spesso disattese, molti strumenti amministrativi però esistono già. Non bisogna insomma ripartire da zero, ma aggiornarli. «Oggi si ragiona sul tema dei centri civici» afferma Carlo Cellamare. «I centri civici, sul modello dei Laboratori di quartiere, potrebbero diventare spazi che erogano servizi al territorio, occasioni per lo sviluppo di economie locali, centri che svolgono azioni di supporto, che creano welfare di comunità. I centri civici sarebbero insomma basi per fare politiche di quartiere, dialogando con tutti gli interlocutori che operano sul territorio». I centri civici da una parte consentirebbero l’implementazione di politiche place based, multidimensionali e specifiche, su cui l’Unione Europea insiste molto; dall’altra permetterebbero una valutazione in tempo reale dell’efficacia delle politiche in termini di effetti sul territorio.
Nei contesti europei la ricognizione dei soggetti e delle risorse dei territori è una fase preliminare delle progettualità. «Se dobbiamo ripensare un progetto di città per il futuro, dobbiamo interrogarci su quali risorse, quali potenzialità, quali energie, su quali soggetti possiamo coinvolgere» osserva Cellamare. «Quali sono le risorse su cui possiamo contare per costruire politiche di sviluppo di economie locali? Quali gambe possiamo dare alle nuove progettualità?» Il governo della città non può prescindere da una componente di “conoscenza esperta”: non è la conoscenza degli esperti, ma quella che viene dall’esperienza degli abitanti e di altri soggetti che operano sul territorio. «È una conoscenza non sistematizzabile, quantificabile, secondo i canoni di scientificità che di solito adoperiamo» afferma Cellamare. «Ma è una conoscenza assolutamente rilevante per gli interventi che si vogliono fare. Il ruolo della conoscenza esperta è riconosciuto come molto rilevante a livello internazionale. Spesso è determinante per gli interventi locali sulla mobilità, sulle pedonalizzazioni, o nel rilevamento degli usi reali degli spazi, degli edifici dismessi». L’Istituto di Statistica del Canada ha prodotto una app per il rilevamento degli edifici dismessi attraverso crowdsourcing di informazioni, il coinvolgimento della popolazione locale, uno strumento molto semplice. «Il dato interessante è che l’Istituto di Statistica ritiene questa conoscenza esperta locale valida scientificamente. È importante valorizzare le conoscenze che vengono dai territori, e indagare le risorse, le reti di welfare locale, le progettualità già in corso» sostiene Cellamare. Esperimenti di questo tipo a Roma non mancano: la neonata rete attiva a Centocelle, la Libera Assemblea di Centocelle, ha avviato un progetto di mappatura del territorio come fase preliminare di una progettualità condivisa. Perché il Comune non è in grado di fare altrettanto?
Tre sono le proposte su cui convergono Cellamare, Lelo e Puccini: una ridefinizione dei limiti amministrativi a piccola e a grande scala, dal quartiere alla città metropolitana; la centralità dei Laboratori di quartiere/centri civici come strumenti di partecipazione, di conoscenza e di intervento sul territorio; la costituzione di un osservatorio pubblico permanente di raccolta di informazioni su Roma, in cui far convergere tutti i dati e le analisi sulla città, che funzioni da collegamento tra le tre università pubbliche e le cento università straniere, e gli enti pubblici che producono e analizzano dati (come la Camera di Commercio, l’INPS, l’Istat, l’Agenzia delle Entrate) che hanno sede nella Capitale. La condivisione degli strumenti di lettura del territorio è il primo passo per costruire politiche efficaci per la città.
Nel settore privato la capacità di raccogliere, leggere e analizzare enormi quantità di informazioni digitali è oggi alla base di nuove forme di estrazione e di creazione di valore. Il potere dei nuovi attori dell’economia digitale deriva proprio dalla cattura dei dati, prodotti dai cittadini, estratti, venduti e analizzati non solo per migliorare la qualità dei prodotti venduti, ma per essere trasformati essi stessi in prodotti, scambiati sul nuovo mercato delle previsioni. Attraverso la profilazione, l’insieme di tecniche usate per identificare e categorizzare gli utenti, le nostre stesse identità vengono analizzate per aumentare i profitti delle aziende che operano nel «business della realtà», per dirla con la studiosa Shoshana Zuboff. Intanto il settore pubblico appare incapace di dotarsi dei più basilari strumenti di lettura e analisi della città, al di là delle vaghissime dichiarazioni di intenti contenute nei documenti programmatici per “strategie open data e government”. L’incapacità di elaborare dati, analizzare il territorio e immaginare politiche mirate, oltre alla gestione ordinaria della città, lascia un vuoto che il mercato delle soluzioni tecnologiche, fornite da imprese private, è pronto a colmare. Anche per questo è necessario che la politica torni a occuparsi dell’elaborazione dei dati sulla città, perché la sua amministrazione sia un processo democratico e partecipato. L’aggiornamento degli strumenti di lettura della città serve innanzitutto affinché la cittadinanza possa partecipare, in maniera informata, alle scelte politiche sul futuro di Roma.
Micromega, 4 giugno 2021