C’è un punto di vista privilegiato da cui esplorare le fondamentali dinamiche economiche, sociali e culturali che innervano la società capitalista – quelle di classe. Il punto di vista è quello del cameriere, e il cameriere è Luigi Chiarella, la cui voce ci guida attraverso un mondo fatto di ritmi serrati, ordini, soprusi e ingiustizie, ma anche di momenti e parole di solidarietà, che si consumano nei ristoranti di Vienna. In Risto Reich. Il lavoro del cameriere (Alegre, pp. 362, euro 17), libro appena uscito per Alegre nella collana Working Class diretta da Alberto Prunetti, Chiarella racconta l’emigrazione, la fuga dalla precarietà e dalla povertà in Italia, l’arrivo in una città straniera, l’approdo al mondo della ristorazione italiana a Vienna mentre impara il tedesco, la sequenza di locali e di lavori, di storie e di personaggi che li animano. E in questo racconto minuzioso e dettagliato, mai pesante, il suo sguardo porta in superficie le tensioni invisibili che la società preferisce rimuovere ma che un cameriere vive con il corpo.
Una parte del mondo occidentale, una parte molto importante considerando il peso crescente che la ristorazione e altri settori di servizi alla persona giocano nelle economie urbane, è regolata da logiche gerarchiche, classiste e a tratti violente. Come le disuguaglianze economiche e sociali in generale, queste logiche e gerarchie sono strutturali ma ben nascoste, tenute lontane dalla nostra percezione quotidiana, dalle interazioni e dagli scambi che abbiamo quando entriamo in un bar, in un ristorante, in un locale. Un cameriere, invece, percepisce, sente e vede tutto.
«Non ne potevo più dei toni» è una delle prime fasi con cui il libro si apre – e la prima che sottolineo con un certo vigore. Chi non ha mai fatto il cameriere, o non ha mai fatto un lavoro che consiste quasi esclusivamente nel prendere ed eseguire ordini, non lo può capire: «dover sentire la voce che sta lì a dire cosa, come e quando una certa cosa vada fatta». Ovviamente un cameriere sa quasi sempre molto bene cosa, come e quando una cosa vada fatta, ma non è questo il punto. Il punto è il potere. Anche questo un cameriere lo sa benissimo. «Il punto è che la rottura di cazzo raddoppia in potenza nel momento in cui chi comanda vuole solo marcare il territorio. (…) E il tutto arriva a essere grottesco quando a metterlo in opera è uno, o una, che quel lavoro lo sa fare come lo sai fare tu. Niente di più, niente di meno. Ma ora c’è chi lavora per lui, o lei, e da qui a sentirsi autorizzati a comandare il passo è breve».
Comandare, dare ordini: non è una cosa da poco, e non è neanche una cosa che a tutti piace fare. A me e a Luigi Chiarella non è mai passato per la testa, di dare ordini. Forse perché, come chiarisce subito la voce del cameriere, «se si sa da che parte della barricata si vuole stare, basta poco per capire che questa situazione, questo tipo di dinamica, sia un conflitto. Conflitto di classe, per la precisione».
Ci sono vari modi di reagire e di sopravvivere alla guerra di classe imposta da chi vuole comandare. Intanto, raccontarla: se il conflitto di classe viene sistematicamente rimosso come se non esistesse, come se non determinasse la nostra realtà soggettiva e la realtà che ci circonda, come se non plasmasse la nostra esperienza del mondo, il cameriere vede e racconta tutto, rende visibile una storia invisibile, che è poi quella di molti. Descrive nei minimi dettagli il proprio lavoro, essenziale ma dato per scontato, e così svela il funzionamento del mondo della ristorazione uguale dappertutto, da Roma a Milano a Vienna, ma anche forse della società tutta. Contratti a dieci ore per cinquanta realmente lavorati, stipendi fuori busta, in nero, l’eterno lamento dei proprietari-titolari-padroni sulle difficoltà, le tasse, i guadagni bassi; gli incassi in chiaro sottodimensionati, le telecamere per controllare i dipendenti, i periodi di prova che possono durano tre anni, il riciclaggio di denaro e gli stipendi bassissimi «perché tanto tu ti pigli le mance», le mance rubate o divise senza equità. Il mondo della ristorazione italiano è questa roba qui. È correre, fingere, vendere. Nulla a che fare con il cibo vero e con i rituali lenti, lentissimi, della sua preparazione delle nonne.
La resistenza può passare per l’uso del tempo: prendere tempo, rallentare, creare il proprio momento di calma, «creare un altro tempo». La resistenza può essere il riprendersi ciò che è nostro: anche i soldi, letteralmente. Una banconota piegata tra due dita e fatta scivolare nella tasca dei pantaloni. È parte della sfida «di fare ed essere come voglio io, anche se all’interno di un ruolo, ma per smontare direttive e obblighi. Fare a modo mio». Certo, bisogna stare attenti a non passare al lato oscuro: «sento che rapportarmi così con i soldi può essere pericoloso; perché forse è la stessa dinamica che può portare i Toni di questo ambiente a sfruttare le persone per accumulare di più e fare di meno». C’è una regola, decide il nostro, per non diventare così: «le magie solo se vanno a pesare sul groppone del padrone, se sono un calcio in faccia a i cani da guardia (…), solo se riparano a un torto e pareggiano i conti, altrimenti no». La classe del resto non è acqua: alcuni rubano dall’alto, come quelli che in Italia negli ultimi 17 anni hanno prodotto tra le altre cose una contrazione di 8,7 punti percentuali dei salari reali; altri lo fanno dal basso, come strategia di sopravvivenza, di giustizia, per riprendersi ciò che è stato loro rubato. Una strategia che si sa temporanea, non risolutiva. Similmente, leggere Risto Reich è un piacevole, utile esercizio per vedere all’opera le dinamiche di questa guerra di classe agita dall’alto, per riconoscerle e combatterle.