Sarah Gainsforth, Lucia Tozzi
DinamoPrint #4 Transizioni. Città e corpi fuori norma
Tutti si chiedono come cambieranno le città, qualcuno pretende di saperlo. Carlo Ratti, per esempio: architetto di origine torinese, ha scalato l’Mit di Boston ed è riuscito a posizionarsi rapidamente tra i guru internazionali della città del futuro, in particolare nella sua declinazione smart. Dai Ted-talk alle conferenze corporate, fino ai classici inserti sui destini urbani sui giornaloni, illustra con generosità come Milano, Londra, Shanghai o Lisbona evolveranno: immancabilmente in meglio, con tanta tecnologia e spazi verdi, e tantissimi abitanti benestanti ma diversi che si godono lo spazio pubblico in relax. Il quotidiano “La Repubblica” ha pubblicato un suo intervento su Barcellona in occasione del Future of Tourism World Summit che la città ha ospitato il 26-27 ottobre per dare un segnale chiaro sulla ripresa a testa bassa dell’economia turistica. Il guru come sempre ci offre una prospettiva innovativa sulla questione: Barcellona, è vero, non è più quella sfavillante città messa a nuovo grazie alle Olimpiadi del 1992 (grazie agli sventramenti e alle violente espulsioni dai quartieri popolari della Ciutat Vella e la gigantesca cessione di potere e cubature ai privati, tra cui il ben noto gigante Hines, che Ratti omette di raccontare). Barcellona è ora oppressa dal turismo mordi e fuggi. Ma tutto si risolve puntando su una nuova pratica: il turismo posato. «I suoi adepti, i viaggiatori posati, resterebbero per periodi più o meno lunghi in un certo luogo invece di saltare di continuo da una città all’altra, aiutando a ritrovare il senso di parole come integrazione e contributo civico».
È straordinario come si riesca a inventare nuove parole per cose che già da decenni sono luogo comune. Con la riapertura delle attività legate al consumo, a Firenze il sindaco Nardella ha promesso la riqualificazione di alcune piazze «individuate come più intime dai residenti». Come ci ricorda Grazia Galli, intimo è sinonimo di esclusivo, privato, riservato, selezionato. La ripresa non solo si basa su ciò che già c’era, che si è rivelato palesemente insostenibile, ma si rincara la dose: ciò che è esclusivo esclude, e se le città devono vivere della loro turistificazione, seguiranno espulsioni sempre più massicce. Il «turismo posato» è questo. Direbbe Catalano: meglio un turista ricco che spende per lunghi periodi che un poveraccio portato in giro in bus. Ratti, furbo, va oltre i ricchi e occhieggia ai giovani, oro delle città, sale della coolness e dell’industria dell’intrattenimento: «Per attrarre i viaggiatori posati Barcellona potrebbe sfruttare il potere delle piattaforme online. Oltre a creare opportunità di volontariato o di lavoro temporaneo, potrebbero essere offerti incentivi alle aziende del settore dell’accoglienza per offrire sconti maggiori per soggiorni lunghi». Non conta più a quale categoria appartengano gli abitanti temporanei, basta che siano temporanei. E se temporanei vuol dire un paio di mesi, o di anni – il tempo di formarsi e di entrare nel mondo del lavoro, come a Milano, dove gli studenti pagano fino a 700 euro per una stanza – son meglio questi che i turisti in ciabatte. Il vero mercato, oggi, è quello del futuro: l’investimento sul futuro, quello che non esiste, e che non si avvererà.
Più di un anno e mezzo fa gli ingranaggi delle città si arrestavano con la diffusione di una pandemia. In questa interruzione, mentre il mondo era sospeso, abbiamo potuto vedere come sono cambiati in questi anni i contesti urbani. Sono emersi, e sono aumentati, i divari, la povertà, il lavoro sommerso, la precarietà. Il sistema sanitario, di welfare, e di cura, è scricchiolato a causa dei pesanti tagli imposti dagli anni Novanta. L’economia urbana che si regge sull’attrazione competitiva di flussi si è mostrata insostenibile. Abbiamo riscoperto il valore della solidarietà, della prossimità, dei quartieri abitati, dello spazio pubblico, quello dell’incontro. Qualcosa sarebbe potuto cambiare. Si è paragonata la crisi sanitaria a una guerra. Il paragone ci è sempre sembrato improprio, ma a farlo, andrebbe almeno percorso fino in fondo. Ciò che si è mancato di rilevare, infatti, è che lo “sforzo collettivo” richiesto per fare fronte a una situazione catastrofica e di emergenza, nel caso della seconda guerra mondiale, ha dato corso a una consapevolezza nuova e diffusa circa la necessità di una pianificazione centrale, pubblica, anche attraverso il sistema fiscale, del territorio, dell’industria e dell’economia in generale.
La guerra, secondo l’economista liberale William Beveridge, è stata occasione non di «riparazioni» ma di rifondazione. Questa consapevolezza ha legittimato l’intervento pubblico nella ricostruzione post-bellica con nuove politiche di protezione sociale riguardanti assicurazioni, salari, previdenza e sanità, per garantire livelli minimi di sussistenza. In una parola, la nascita del Welfare State. La terra, in Inghilterra, fu nazionalizzata. Fu nazionalizzato il diritto di edificarla. La rendita fu messa sotto il controllo pubblico. Nel campo delle politiche abitative, si sostenne l’intervento pubblico, invertendo l’orientamento che aveva prevalso nel periodo tra le due guerre che privilegiava l’intervento privato. Il ruolo del pubblico nella pianificazione del territorio diventava fondamentale. Nasceva il sistema sanitario nazionale.
In Italia i tentativi di invertire l’equilibrio nel rapporto tra pubblico e privato e di porre un freno allo strapotere della rendita parassitaria e del blocco di potere dominante – quello edilizio – hanno avuto vita breve. L’urbanistica, strumento di emancipazione di vaste porzioni di popolazione, a partire dalle donne che che sin dagli anni Cinquanta rivendicavano l’istituzione di servizi sociali e di cura come gli asili nido, le cui lotte avrebbero portato alla legge sugli standard urbanistici, è presto scomparsa.
Dopo una pandemia, qualcosa sarebbe potuto cambiare. Si sarebbe potuto, per esempio, riconoscere il ruolo fondamentale delle esperienze dal basso. Con finanziamenti pubblici (ora non si può più dire che “i fondi non ci sono”), queste potrebbero strutturarsi, cooperare con le istituzioni, essere retribuite – altro che volontariato – e, in un quadro di competenze distinte, fornire i nuovi servizi di cui c’è bisogno, e che in molti casi già forniscono. Si sarebbe potuto ridare lustro alla pubblica amministrazione con finanziamenti, assunzioni a tempo indeterminato, per invertire il regime privatistico, imprenditoriale e concorrenziale del Terzo settore, in cui spesso le esperienze dal basso sono incasellate e costrette a operare in modo precario e frammentario.
È invece in atto un gigantesco processo di rimozione. Una rimozione della discontinuità operata dalla pandemia, del disvelamento delle contraddizioni, del riconoscimento dell’insostenibilità delle condizioni di lavoro, di cura, di welfare su cui l’infrastruttura economica si regge. I principali strumenti di questa rimozione sono due: il più grande piano di spesa pubblica mai approvato senza alcun dibattito pubblico, e un repertorio di vecchie e nuove narrazioni. Si ritira fuori, di nuovo, la necessità di modernizzare il paese – il ritornello grazie al quale solo al 2007 l’Italia aveva privatizzato molto più di quanto l’Europa avesse chiesto, infatti più di ogni altro paese al mondo escluso il Giappone.
Quale idea di città, quale visione del territorio guida ed emerge dal Pnrr? Innanzitutto, bisogna dire che questo tsunami di fondi trova un’amministrazione pubblica impreparata a riceverli e gestirli, completamente incapace di progettualità, massacrata com’è stata dai tagli – in nome della modernizzazione. Gli strumenti che dovrebbe servire a riequilibrare i divari, l’urbanistica, la pianificazione, la progettualità, sono usciti di scena. E i divari sembrano essere le occasioni per riproporre logiche che li hanno generati come la soluzione: le logiche di mercato, di marketing territoriale, di attrattività, di competitività, in una parola le logiche estrattive.
I settori che più beneficeranno della spesa pubblica sono i soliti noti, vecchissimi, morti-viventi: “costruzioni e immobiliare”. Piovano sussidi e sgravi fiscali su tutti quei settori morti-viventi che si sono mostrati fragili, che non si sono mai innovati, che non ce la fanno da soli, ma che dobbiamo tenere in vita. Dunque, in fondo, l’intervento dello Stato è ancora più necessario che mai. Ma per chi? Non solo il buon vecchio mattone, ma la ristorazione, il consumo, il turismo. I balneari. I soliti noti motori dell’economia fondata sulle rendite che non si riesce a immaginare diversa, alimentata dallo Stato mentre si riformano le pensioni, si aprono i servizi pubblici locali al mercato, si vietano le manifestazioni in centro per non disturbare il commercio, si approvano norme “di nascosto” – come quella sulla trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà per l’edilizia convenzionata. Grazie a questa modifica, i comuni vedono dimezzati gli introiti dalla vendita di case costruite con fondi pubblici grazie ai piani sulla casa, approvati dopo la guerra. La proprietà, la cui diffusione è servita a rompere la composizione delle lotte, ancora una volta, la fa da padrona mentre si schiacciano verso il basso salari e diritti.
Il paradigma urbano, estrattivo, consumistico, applicato a tutto, è dunque quello del turismo. Ed ecco che le narrazioni diventano centrali: meno sostenibile diventa la nostra economia, meno inclusiva, meno resiliente ed equa, più i testi di provvedimenti e progetti fanno uso delle formule dell’inclusione sociale, del green, del sostenibile, su cui oggi molto del marketing territoriale si gioca. Quella che emerge dalla lettura di alcuni passaggi del documento sul gigantesco piano di spesa pubblica, in parte a debito, è una rappresentazione del Paese che rimuove la complessità, la varietà, le sue specificità. È una narrazione turistica, di un’economia coloniale. Abbiamo vissuto una surreale campagna elettorale per le amministrative dove tutti i candidati di tutte le città, indifferentemente dal loro colore politico o civico, hanno spinto sul solo pedale del turismo tout court. A differenza della corsa per il sindaco di Venezia nel 2020, caratterizzata da diverse sfumature di critica alla turistificazione, ora ogni dubbio sembra svanito: momenti clou sono stati quelli in cui Maran, oggi assessore alla casa a Milano, ha rivendicato con orgoglio la tavolinizzazione selvaggia di Milano, ottenendo in cambio una valanga di voti, e parallelamente a Roma tutti i candidati in coro hanno chiesto e ottenuto da papà Draghi la candidatura all’Expo 2030. Restiamo così tra gli ultimi paesi al mondo a credere nella natura salvifica dei grandi eventi, dopo avere assistito all’indebitamento sistematico di ogni città che ne ha subito uno sulla propria pelle. L’unica via per ristabilire un equilibrio tra turisti e abitanti nelle città e nei territori è impegnarsi per una decrescita turistica, attuata mediante de finanziamento dell’industria dell’accoglienza e diversificazione dell’economia. Che ammassare fondi per promuovere percorsi alternativi, come ora si sta facendo con la narrazione tossica dei borghi, non decongestionerà neanche un po’ i grandi musei e le città iconiche, ma estenderà la pressione turistica su territori che ancora hanno la possibilità di pensare a economie meno fragili e a maggior valore aggiunto.
Ma le narrazioni ci propinano altro: la stessa “inclusione” sociale, coniugata in termini di “partecipazione”, di cittadinanza “attiva”, si declina in termini meritori pur basandosi di fatto sullo sfruttamento – e sull’autosfruttamento: bisogna riconoscere il tratto sublime dell’appello a sfruttare anche il turista con i lavoretti o con il volontariato, che ricalca da vicino la storia dei migranti chiamati a pulire le strade per mostrare il proprio desiderio di collaborazione e senso di responsabilità, o il volontariato à la Retake che supplisce alla mancanza di servizi, di fatto creando un modello di cittadinanza alternativo, club privato o community, a cui si accede per merito, e dunque per disponibilità economica. In generale il marketing del turismo sostenibile e della città attrattiva rappresenta un miserabile diversivo per distogliere il discorso dalla grande questione centrale: chi guadagna con un simile modello e chi detiene il monopolio di questo sistema estrattivo.
Puntare tutto sul turismo: è come se un medico ingegnoso proponesse a un paziente in crisi emorragica di cambiare la pomata per le efelidi. Invece di capire come bloccare il flusso letale, ci si inventa una finta alternativa che non ha nessuna speranza di diventare una soluzione. L’intera narrazione si basa sull’assunto base: finanziamo un turismo migliore (più verde, più social-friendly, più interessato alla cultura), e non ripensiamo le politiche economiche territoriali.
Le retoriche del turismo, del turismo sostenibile e della città inclusiva, servono allora non solo a lasciare tutto com’è, ma a presentare questo status quo come una grande vittoria per un futuro migliore. Il valore finanziario, non dimentichiamo, deriva dalla previsione di un reddito futuro, staccato dall’economia reale, dal territorio fisico, e dalle nostre vite. È questa la logica introiettata, e promossa, diffusa, promessa. Noi non abbiamo la pretesa di sapere quale sarà il futuro delle città. Sappiamo però che è sul nostro futuro che il processo di accumulazione oggi si gioca.